Legge e Diritto – Il ‘ne bis in idem’ nel processo civile.

Il ‘ne bis in idem’ nel giudizio civile.

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Il ‘ne bis in idem’ nel processo civile.

La locuzione ‘ne bis in idem‘ esprime un principio del diritto per via del quale un giudice non può decidere due volte sulla stessa ‘azione’ se si è formata la cosa giudicata, in altre parole, rappresenta il divieto di riproporre una domanda giudiziale su una questione che sia stata già giudicata con sentenza passata in giudicato.

Tuttavia, poniamo il caso, in tema di risarcimento del danno nel processo civile, che successivi nuovi danni, insorti dalla data in poi del deposito dell’originario atto di citazione, per negligenza e/o imperizia del nostro avvocato, o per ragionevoli altre motivazioni (come nel caso di insorgenza di nuovi danni in corso di causa e/o successivi alla data dell’udienza per la precisazione delle conclusioni), non siano stati precisati e/o specificati (precisando e/o modificando gli elementi costitutivi, sia che si tratti del petitum, sia che si tratti della causa petendi, o di entrambi) nella prima udienza di comparizione e trattazione (ex art. 183 co. 5 c.p.c.) e/o col deposito della Memoria ex art. 183 co. 6, n. 1, c.p.c., e/o con la tempestiva rimessione in termini (art. 153 co. 2 c.p.c.) e che, in conseguenza di ciò, ci si ritrovi ad avere un risarcimento esiguo nei riguardi della reale portata dei danni subiti (in quanto, appunto, non dedotti, e/o non documentati a dovere, nel corso del processo di I grado), e che successivamente, anche nell’eventuale grado di appello, la reale portata ed entità dei danni patiti non venga similmente riconosciuta (talvolta, anche per una erronea interpretazione giurisprudenziale da parte dei giudici) per via di quanto disposto dall’art. 345 c.p.c. (per cui non possono essere proposte domande nuove, e/o nuovi documenti o prove, nel giudizio di appello); che fare in tale circostanza?

Ecco, nel presente articolo, ci si addentrerà in quella che in alcuni casi è l’unica ragionevole possibilità per avere quanto di diritto, ovvero instaurare un nuovo processo di I grado.

Con le sentenze gemelle S.U. civ. del 16 febbraio 2017, n. 4090 e n. 4091, la Suprema Corte, muovendo altresì dai precedenti orientamenti espressi nella sentenza S.U. civ. n. 12310/2015 in materia di modificabilità della domanda ex art. 183 c.p.c., ha precisato e specificato il precedente assetto giurisprudenziale di Cass. civ. n. 23726/2007 e Cass. civ. n. 26961/2009 in tema di infrazionabilità del credito, avendo voluto fare chiarezza su alcune errate e non convincenti applicazioni del principio del divieto dell’abuso dello strumento processuale statuendo che:

“…Come emerge con chiarezza dalla lettura delle sentenze suddette, quando le sezioni unite hanno discusso di (in)frazionabilità del credito si sono riferite sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso.

Pertanto solo una interpretazione dell’espressione <unico rapporto obbligatorio>, avulsa dal contesto nel quale essa è inserita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di durata

La tesi secondo la quale più crediti distinti, ma relativi ad un medesimo rapporto di durata, debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando piuttosto questa costruita intorno a una prospettiva affatto diversa

D’altro canto, l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggettiva del giudicato -in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili- perderebbe gran parte di significato se dovesse ritenersi improponibile qualunque azione per il recupero di un credito solo perché preceduta da altra, intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibile ad uno stesso rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto di durata.

La mancanza di una specifica norma che autorizzi a ritenere comminabile la grave sanzione della improponibilità della domanda per il creditore che abbia in precedenza agito per il recupero di diverso credito, sia pure riguardante lo stesso rapporto di durata, e, soprattutto, la presenza nell’ordinamento di numerose norme che autorizzano, invece, l’ipotesi contraria, rafforzano la fondatezza ermeneutica della soluzione.

Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa ad un credito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorché relativo ad un unico rapporto complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto in uno stesso processo…

In ogni caso, l’onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura…essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre non in un alleggerimento bensì -in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l’istruttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo…

È infine il caso di evidenziare che l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia…

La disciplina codicistica -relativa, tra l’altro, a connessione, domande accessorie, preclusione da giudicato-, sopra richiamata perché idonea a testimoniare di un sistema che <contempla> -e perciò autorizza- l’ipotesi di diverse domande proposte in tempi e processi differenti con riguardo a crediti (diversi e tuttavia) riferibili ad un medesimo rapporto di durata…

Non si tratta quindi di valutare <caso per caso> (inrelazione al bilanciamento degli interessi di ricorrente e resistente) l’azionabilità separata dei diversi crediti, né tanto meno si tratta di accertare eventuali intenti emulativi o di indagare i comportamenti processuali del creditore agente sul versante psico-soggettivistico.

Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo”.

Come statuito dalle sentenze gemelle qui riportate (Cass. S.U. civ. n. 4090/2017 e n. 4091/2017), un errata interpretazione del dettame della Corte in esame (Cass. civ. n. 23726/2007 e Cass. civ. n. 26961/2009), attesa l’inesistenza di una specifica norma che contempli la “grave sanzione” della improponibilità di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorché relativo a un unico rapporto complesso, finirebbe per avvantaggiare enormemente il debitore, e inevitabilmente a far gravare, ingiustamente, la posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie, derivanti da un medesimo rapporto, in uno stesso processo, trovandosi vincolato, anche nei casi di difficoltà oggettiva (come nella circostanza di molteplicità e ripetitività di nuovi crediti nascenti, nel tempo, dallo stesso rapporto di obbligazione), a dover dedurre, anche dopo l’introduzione del giudizio già cristallizzatosi con la previsione dell’ex art. 183 c.p.c., tempestivamente, sempre e comunque, ogni nuovo credito nascente, durante l’intero giudizio, senza avere la possibilità, a fronte di una oggettiva propria necessità, nonché interesse, “alla tutela processuale frazionata”.

Il che non risponderebbe neanche all’interesse pubblico di evitare ogni tipo di allungamento dei tempi processuali, atteso che tale cumulo obbligatorio, in sostanza, complicherebbe la vicenda processuale e, di conseguenza, oggettivamente, ne ritarderebbe la definizione, con pregiudizievoli conseguenze per l’economia processuale.

La scissione del contenuto dell’obbligazione (che potrebbe essere operata dal creditore con la parcellizzazione delle domande dirette alla soddisfazione della pretesa creditoria) non è per ciò solo qualificabile come abuso degli strumenti processuali.

Occorrerà, tuttavia, rilevare la sussistenza di un interesse o di una necessità, oggettivamente, valutabile alla tutela processuale frazionata, come nel caso di chi abbia subito un illecito permanente non istantaneo, ma in continua evoluzione, per tutto il tempo del precedente giudizio, per cui questi, oggettivamente, si troverebbe nella enorme difficoltà di dover allegare, e ogni volta, il nuovo aggravamento con relativa richiesta di rimessione in termini (art. 153 co. 2 c.p.c.), cosa questa che, in alcuni casi (specie nella circostanza di ripetuti insorgenti nuovi danni e/o di recidive dello stesso) aggraverebbe e allungherebbe l’economia processuale e non la renderebbe per nulla più agevolata, in quanto con le eventuali ripetute rimessioni in termini, ad ogni nuovo danno venuto all’esistenza, il processo dovrebbe precipitare ogni volta in una nuova fase istruttoria e sarebbe, dunque, infinito.

L’ordinamento processuale ammette i procedimenti distinti per crediti diversi ma, di contro, ove possibile, ne predilige la trattazione unitaria al fine di evitare una duplicazione dell’attività istruttoria e decisoria, evitando anche il rischio di contrasto tra giudicati, nonché per assicurare una ragionevole durata del processo e il minimo utilizzo del ricorso alla giustizia.

L’espressione ‘unico rapporto obbligatorio’, precisa la Suprema Corte, va riferita al singolo credito da esso nascente (e che va adempiuto interamente durante il processo), ma non attiene alla pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto obbligatorio complesso, tra l’altro aventi origine in tempi e modalità differenti nell’ambito dell’unico rapporto obbligatorio complesso instauratosi con l’evento originario.

In altri termini, il principio di infrazionabilità non è stato affermato anche riguardo a una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di obbligazione, per cui da ciò consegue, secondo le Sezioni Unite, l’insussistenza -giuridicamente parlando- di qualsivoglia necessità che si debba agire, in un unico processo, per diritti di credito distinti e autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso pendente tra le stesse parti.

Decisiva è, infatti, la ritenuta ricorrenza di un qualificato interesse giuridico tale da giustificare questa modalità di proposizione delle domande, infatti, la S.C. ribadisce che il principio di interesse ad agire va esteso sino a ricomprendervi il concetto di meritevolezza.

Non è, dunque, sufficiente il fatto che con un nuovo giudizio la parte possa essere in grado di raggiungere un risultato a sé favorevole, ma occorre anche che tale interesse ad agire di nuovo (considerate anche le modalità con le quali tale interesse è perseguito), sia meritevole di tutela.

La circostanza, infatti, che la nuova domanda riguardi il medesimo rapporto di obbligazione non deve comportare la conseguenza della non più deducibilità della stessa in ragione del formarsi del giudicato di accoglimento della prima domanda, in quanto, il giudicato formatosi tra le stesse parti in altro processo, riguarda solo il petitum e la causa petendi fatti valere in quella causa.

Nella circostanza di un positivo giudicato sostanziale sull’originario rapporto complesso di obbligazione, e solo di un giudicato in rito sulle successive conseguenze lesive ad esso connesse e da esso dipendenti, vi è certezza che la pretesa successiva in un altro e diverso giudizio, sia, appunto, meritevole di tutela, oltre che necessaria e dovuta ad un illecito permanente evolutosi nel tempo; caso in cui un giudicato contrastante non può assolutamente venirsi a creare (in quanto non viene messa, minimamente, in discussione la statuizione coperta dal giudicato sostanziale sulla responsabilità accertata per la parte in relazione all’evento dannoso originario), e in cui la buona fede e la correttezza non possono essere messi in discussione, perché nulla, in merito, può essere stato né pianificato, né voluto, in quanto, com’è oltremodo evidente, al momento del deposito dell’originario atto introduttivo del precedente giudizio, tali successive conseguenze lesive non si erano ancora verificate (oltre al fatto che il creditore stesso ne ha avuto danno nell’essere stato ripetutamente in perfetto svantaggio nei confronti del debitore, in quanto l’illecito permanente, in continua evoluzione, ha fatto si che le conseguenze lesive fossero difficilmente deducibili, tempestivamente, nel primo giudizio).

Solo se, per l’appunto, al contrario, tali successive conseguenze lesive fossero state già presenti al momento del deposito dell’atto di citazione, con la conseguente ivi conoscenza dell’attore, si potrebbe discutere di eventuale infrazionabilità.

La Suprema Corte osserva, infine, che, nella fattispecie in esame, non si tratta di valutare l’esperibilità di un nuovo distinto processo in virtù di un bilanciamento tra i contrastanti interessi delle parti, né si tratta di accertare e/o di indagare, sotto il profilo psicologico, eventuali comportamenti o intenti emulativi del creditore -attore-, si tratta, invece, solo di appurare se “il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata”.

L’orientamento, dunque, come, in precedenza, espresso da Cass. civ. n. 23726/2007 e Cass. civ. n. 26961/2009, e ora decisamente superato dalla precisazione statuita dalle summenzionate sentenze gemelle S.U. civ. n. 4090 e n. 4091 del 2017, non dev’essere distorto per giustificare e limitare, in linea generale, la portata e l’entità del risarcimento da parte dei soggetti a ciò tenuti, in quanto ben si comprenderà come, se, da un lato, pare sicuramente tutelabile l’interesse della parte debitrice a non vedersi nuovamente chiamata in giudizio dal danneggiato, dall’altro lato, vi è il diritto della parte creditrice ad avere una tutela, della propria posizione, esaustiva ed effettiva.

Tra l’altro, l’ordinamento prevede, come uniche circostanze estintive del diritto risarcitorio, la prescrizione e la decadenza, oltre, ovviamente, all’adempimento.

E’, dunque, pienamente condivisibile, al fine di garantire la tutela sostanziale del diritto risarcitorio, quell’orientamento della Suprema Corte (ormai quasi unanime in diritto e in giurisprudenza) il quale, in caso di proposizione di plurime domande risarcitorie, statuisce che le uniche conseguenze sanzionatorie possano esserci solo sul piano delle spese processuali, dovendo essere sempre fatto salvo il principio della tutela sostanziale del diritto.

In tal senso, Cass. civ. 10634/2010: “al riscontrato abuso non può tuttavia conseguire la sanzione della inammissibilità della domanda, posto che non è l’accesso in sé allo strumento processuale che è illegittimo, bensì le modalità con cui è avvenuto…”.

Conseguentemente, la seconda causa giudiziale non è da considerarsi inammissibile, ma valutabile nel merito, con facoltà del giudice, nell’ambito dei poteri riconosciutigli dall’art. 91 c.p.c. di eliminare, per quanto possibile, gli effetti distorsivi dell’abuso sul piano delle spese valutando le spese come se unico fosse stato il processo sin dall’origine”;

Cass. S.U. civ. n. 9962/2011: “Ed, allora, la soluzione più razionale non è negare l’accesso alla tutela giurisdizionale, ma rimuovere gli effetti distorsivi ed illeciti che ha scaturito l’abuso. Nel caso di specie, pertanto, vanno rimossi solo gli effetti distorsivi che l’abuso ha provocato”.

Cass. civ. n. 10488/2011: “Dal riscontrato abuso dello strumento processuale non può tuttavia conseguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l’accesso in sé allo strumento che è illegittimo, ma le modalità con cui è avvenuto, ma l’eliminazione per quanto possibile degli effetti distorsivi dell’abuso e quindi, nella fattispecie, la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il procedimento sin dall’origine” (anche Cass. civ. n. 20834/2017).

Sentenza del Tribunale di Varese sezione I civ., 02-09-2010: “deve affermarsi che le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (articolo 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte. Ed, allora, la soluzione più razionale non è negare l’accesso alla tutela giurisdizionale, ma rimuovere gli effetti distorsivi ed illeciti che ha scaturito l’abuso. Nel caso di specie, pertanto, vanno rimossi solo gli effetti distorsivi che l’abuso ha provocato… In linea con la giurisprudenza più recente, tenuto conto della condotta scorretta della creditrice, nei sensi esposti, l’ingiunzione va emessa ed il ricorso accolto ma con l’integrale rigetto della richiesta di pagamento delle spese processuali, che dovranno essere sostenute integralmente e direttamente dalla D. s.r.l…”.

Non inficia tale orientamento la nota pronuncia a S.U civ. n. 26972/2008, in quanto verte su una materia differente, e specificatamente, sull’evitare la moltiplicazione indiscriminata delle voci di danno non patrimoniale conseguenti da un illecito limitandosi a statuire che nel danno biologico è già ricompreso il danno morale, mentre riconosce comunque la facoltà per la parte creditrice di dedurre e provare la sussistenza di ulteriori e differenti danni.

Pertanto, l’unico eventuale effetto distorsivo, ovvero l’unico ‘danno’ che la parte debitrice, eventualmente, subirebbe da un successivo ulteriore riconoscimento del risarcimento all’attore per i nuovi danni, non ritualmente introdotti nel primo giudizio, sarebbero le spese di difesa relative al nuovo giudizio (rappresentabili, eventualmente, come spese in più), in vista di un danno cagionato, che avrebbe comunque, in ogni caso, dovuto risarcire, per cui ben sarebbe, ragionevolmente, accettabile, come statuito dalle sopra citate sentenze della S.C., che all’attore -ove se ne intraveda la necessità- si commisurasse la sanzione di cui all’art. 91 c.p.c., ma non “la sanzione della inammissibilità della domanda, posto che non è l’accesso in sé allo strumento processuale che è illegittimo, bensì le modalità con cui è avvenuto”.

Non può, il diritto risarcitorio attoreo (il quale ha subito ulteriori, ed eventualmente anche gravi, danni negli anni), il quale è oggettivamente meritevole di tutela, essere inferiore, non già al diritto di difesa di controparte, nel nuovo giudizio sempre e comunque pienamente attuato e attuabile, ma ad un unico ed irrilevante effetto distorsivo dell’abuso che ai fatti si attua solo sul piano delle spese, il quale può del tutto essere rimosso, ovvero sanzionando, nel caso se ne ravvisino i presupposti, l’attore stesso, secondo le modalità di cui all’ex art. 91 c.p.c.

Urge precisare anche che le sentenze di rito, o le pronunce di rito nelle sentenze di merito, non producono effetti al di fuori del processo in cui sono state emesse, per cui la pronuncia di rito, in una sentenza passata in giudicato formale, non produce effetti di giudicato sostanziale in un successivo processo instaurato tra le stesse parti e sullo stesso oggetto.

Infatti, la circostanza che queste pronunce assumano la veste di sentenza non ha valore decisivo di per sé, essendo, a tal riguardo, privi dell’efficacia esterna tale da poter ‘fare stato’ al di fuori del processo in cui essi si sono formati, in quanto risolvono solo questioni al singolo processo inerenti.

Tribunale civ. Torino, 25-10-2016, giudice, dott. Latella: La pronuncia che respinge la domanda perché inammissibile (o improponibile o improcedibile), benché idonea al giudicato formale, non ha efficacia vincolante al di fuori del processo in cui è stata emessa”.

Sentenza n. 732/2009, G.d.P., dott. D’Angelo, Castellammare di Stabia: “…Difatti va rigettata l’eccezione del convenuto relativa all’improcedibilità della domanda per violazione del principio ne bis in idem, poiché come agevolmente si evince dalla Sent. n. 4487 del G.d.P. di Castellammare di Stabia (NA), la stessa fu pronunciata in via del tutto preliminare e senza che il giudicante disponesse nel merito…”.

Sentenza n. 7557/2009, G.d.P., Pozzuoli, dott. Bruno: “…Anche l’eccezione del ne bis in idem non può essere accolta…la pronuncia di inammissibilità della domanda per vizio della sua introduzione senza alcun esame della pretesa dedotta in giudizio, non equivale ad una sentenza di rigetto nel merito, e pertanto non impedisce la riproposizione della stessa domanda con un successivo rituale atto introduttivo di un nuovo giudizio (Cass. Sez.2..n.13785 del 22/7/04)…”.

Cass. civ. n. 4768/2018: “La pronuncia meramente impediente in rito l’esame del merito non costituisce giudicato di rigetto sulla domanda proposta”.

Cass. civ. n. 26377/2014: “Il giudicato su questione processuale, e tale è una questione che abbia investito esclusivamente l’esistenza o meno di una condizione di proponibilità della domanda, è tale solo all’interno dello stesso processo e non estende la sua autorità anche ad un nuovo ed autonomo processole decisioni su questioni processuali, sono suscettibili di formazione del giudicato soltanto nello ambito dello stesso processo (cosiddetto giudicato formale), e non impediscono la proposizione delle medesime questioni in un successivo e diverso giudizio…Né tanto meno la decisione su una questione di proponibilità della domanda impedisce la riproposizione della domanda di merito in un diverso e autonomo giudizio...La statuizione su una questione di rito…dando luogo soltanto al giudicato formale, ha effetto limitato al rapporto processuale nel cui ambito è emanata e, non essendo idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale, non preclude la riproposizione della domanda in altro giudizio”.

Il principio del ‘dedotto e il deducibile’, attiene unicamente alla stabilità degli effetti della statuizione della sentenza e non al suo contenuto generale, nel senso che il vincolo del giudicato sostanziale esclude che si possano far valere nuove deduzioni e/o nuove prove per rimettere in discussione la statuizione contenuta nella sentenza, ovvero l’accertamento della responsabilità della parte debitrice per l’evento dannoso originario, perché l’efficacia del giudicato sostanziale si estende oltre a quanto dedotto dalle parti –giudicato esplicito– anche a quanto non dedotto dalle parti –giudicato implicito– per il quale è precluso alle parti stesse la proposizione, in un altro giudizio, di una qualsivoglia domanda, deduzione o prova avente ad oggetto situazioni soggettive incompatibili con il diritto accertato, in quanto l’accertamento è ormai incontrovertibile.

Un esempio di violazione di detto principio, come pure del ‘ne bis in idem’ può essere:

da parte debitrice: l’instaurare un nuovo giudizio, a causa di nuove deduzioni e/o prove non introdotte prima (‘il dedotto e il deducibile’), per mettere in discussione la statuizione di merito, con giudicato sostanziale, riguardo alla accertata propria responsabilità nell’evento dannoso originario, in quanto tali eventuali nuove deduzioni e/o prove (‘giudicato implicito’), che potrebbero smontare e/o semplicemente rimettere in discussione la precedente statuizione, avrebbe dovuto dedurle durante il precedente giudizio;

da parte dell’attore: l’instaurare un nuovo giudizio, a causa di nuove deduzioni e/o prove non introdotte prima (‘il dedotto e il deducibile’), per mettere in discussione la statuizione di merito, con giudicato sostanziale, riguardo a ipotesi di accertata non responsabilità della parte debitrice nell’evento dannoso originario, in quanto tali eventuali nuove deduzioni e/o prove (‘giudicato implicito’), che potrebbero smontare e/o semplicemente rimettere in discussione la precedente statuizione, avrebbe dovuto dedurle durante il precedente giudizio.

Cass. civ. n. 8583/2000: “L’efficacia preclusiva del giudicato, operando nei limiti dell’accertamento che ha formato oggetto di un determinato giudizio, non si estende ad altri accertamenti della stessa natura riguardanti diversi periodi di tempo”.

Cass. civ. n. 8029/2014: “…il giudicato sulla domanda risarcitoria non si estende ai danni verificatisi in epoca successiva a causa del protrarsi della sottrazione del possesso”.

Cass. civ. n. 499/2009: “In effetti la preclusione da giudicato opera solo nelle ipotesi di identità oggettiva e soggettiva, e deve pertanto escludersi nell’ipotesi in cui vi sia un mutamento anche parziale di tali elementi. Sulla base di tale premessa in passato questa Corte ha escluso sic et simpliciter il giudicato in relazione a periodi contributivi diversi…”.

Al contrario, l’eventuale nuova domanda dell’attore, in un nuovo giudizio, che non metta minimamente in discussione la statuizione, a lui favorevole, del giudicato formale e sostanziale -in quanto riconosce totalmente e precisamente la responsabilità di parte debitrice nell’evento dannoso originario- e che si fondi proprio sul presupposto dell’irrevocabilità di questa stessa statuizione per lui positiva, e questa nuova domanda risarcitoria (‘causa petendi e petitum’) non sia identica alla prima identificata nell’atto introduttivo del giudizio trascorso (per cui senza alcuna e minima violazione del ‘ne bis in idem’), sarà certamente ammissibile, in quanto il nuovo accertamento richiesto e il relativo petitum domandato sarebbero unicamente attinenti, non all’evento dannoso originario, già accertato e risarcito, ma agli ulteriori nuovi danni ad esso collegati, e da esso dipendenti, subiti come aggravamento/peggioramento dell’originaria lesione permanente.

Cass. civ. n. 4241/2013: “La sentenza passata in giudicato, anche quando non possa avere l’effetto vincolante di cui all’art. 2909 cod. civ., può avere comunque l’efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell’accertamento giudiziale e tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interesse…”.

Se le passate sentenze non entrano nel ‘merito’ dell’accertamento dei nuovi danni insorti durante il precedente giudizio, ovvero se tali siano effettivamente riconducibili o meno all’originaria lesione accertata, ma, eventualmente, vi entrino solo su questioni di ‘rito’, la nuova domanda dovrà essere certamente ammissibile, tanto più che la parte debitrice, nel principio del corretto contraddittorio, potrà sempre ampiamente contestare la non riconducibilità dei nuovi danni richiesti all’evento originario coperto dal giudicato sostanziale, in quanto alcun accertamento di merito vi è, in precedenza, stato su di essi (e ciò anche se, eventualmente, ve ne fosse stato uno di tipo tecnico da parte del CTU).

Cass. civ. n. 14057/2008: “In tema di limiti oggettivi del giudicato esterno, la res iudicata è costituita non dai fatti tutti dedotti nel giudizio, bensì soltanto da quelli che, oltre ad essere accertati nella sentenza, compongano, nel loro insieme, la base logico e giuridica del decisum restandone di conseguenza escluse le ulteriori pretese creditorie originariamente accantonate dall’attore…e poste a base di una domanda nuova di primo grado o con l’atto di appello, ma sulle quali il giudice abbia dichiarato di non pronunciare sussistendo una preclusione di carattere processuale, sicché dette pretese possono essere azionate in separato giudizio senza che sia configurabile una preclusione nascente dal primo giudicato”.

La domanda successiva potrà essere decisa, sia nel caso in cui l’unico elemento differenziale, tra il primo e il secondo oggetto dell’accertamento, consiste nello spazio-tempo preso in esame, sia, a maggior ragione, laddove, oltre al profilo temporale, anche la situazione di fatto sia in concreto mutata.

Inoltre, la sentenza di condanna della parte debitrice, consolidata per quanto riguarda la propria responsabilità per l’evento dannoso originario, sarebbe anche, almeno parzialmente, ‘inutiliter data’ nella parte relativa all’accertamento e alla quantificazione di solo un parte del danno cagionato, per cui sulla questione dei nuovi e successivi danni conseguenti, la sentenza, anche per questo motivo, è insuscettibile di passare in giudicato sostanziale.

A titolo di esempio:

*1° Giudizio passato in giudicato formale-: l’attore ha citato parte debitrice per:

1-Soggetti: attore e parte debitrice.

2-Causa petendi -A-: accertamento responsabilità della parte debitrice nella causazione dell’evento dannoso originario.

3-Petitum -B-: richiesta di risarcimento pecuniario relativamente al danno originario (o ai danni originari).

2-Causa petendi -AA-: accertamento effettuato, nel merito, di responsabilità di parte debitrice per l’evento dannoso originario –giudicato sostanziale-.

3-Petitum -BB-: accertamento effettuato, nel merito, del danno originario cagionato da parte debitrice, e conseguente condanna al risarcimento pecuniario del danno –giudicato sostanziale-;

AA + BB: limite soggettivo, oggettivo e temporale fissato all’evento specifico originario;

-funzione positiva per l’attore;

-funzione negativa per parte debitrice;

-dedotto e deducibile (“giudicato esplicito e implicito”) relativamente alle ragioni dell’accertamento, per l’evento dannoso originario, ormai incontrovertibile.

Eventualmente, può esservi stata, contestuale, pronuncia, non nel merito, ma, solo su pregiudiziale di rito di inammissibilità (ad es. per tardività dovuta alle preclusioni processuali) per l’aggravamento/peggioramento avvenuto dopo l’atto introduttivo del giudizio –giudicato di rito con efficacia meramente interna o endoprocessuale-.

*2° Giudizio: l’attore cita nuovamente parte debitrice per i nuovi danni insorti durante il precedente processo civile e/o anche dopo:

-Con il nuovo giudizio l’attore cita nuovamente parte debitrice (1-Soggetti identici), in vista dell’accertata responsabilità in capo alla parte debitrice (per via del giudicato sostanziale), per i nuovi danni insorti dopo l’evento lesivo originario (2-Causa Petendi e 3-Petitum diversi, sia per oggetto, sia per spazio temporale).

1-Soggetti identici: attore e parte debitrice.

2-Causa petendi -C- diversa: accertamento responsabilità di parte debitrice per i nuovi danni subiti dall’attore dopo l’evento dannoso originario;

3-Petitum -D- diverso: richiesta di risarcimento pecuniario relativo ai nuovi danni patiti dopo l’evento dannoso originario.

Dunque, sul presupposto del giudicato formale e sostanziale:

2-Causa petendi -AA-: accertamento già effettuato, nel merito, di responsabilità di parte debitrice, per l’evento dannoso originario –giudicato sostanziale-;

3-Petitum -BB-: accertamento già effettuato, nel merito, del danno originario cagionato da parte debitrice, e conseguente condanna al risarcimento del danno originario –giudicato sostanziale.

l’attore, chiede il riconoscimento di:

2-Causa petendi -C-: responsabilità della parte debitrice per i nuovi danni subiti a seguito dell’accertamento già effettuato di cui al precedente punto AA e BB;

3-Petitum -D-: risarcimento relativamente ai nuovi danni subiti a seguito dell’accertamento già effettuato di cui al precedente punto AA e BB.

C + D: causa petendi e petitum- diversi;

limite oggettivo e temporale diversi;

-funzione positiva per attore, in quanto è vincolante nel nuovo giudizio;

funzione negativa per la parte debitrice, che non può contestare il giudicato sostanziale ad essa sfavorevole;

-dedotto e deducibile (‘giudicato esplicito e implicito’) non attinente al limite oggettivo e temporale, nel nuovo giudizio in oggetto.

Nel nuovo giudizio la 2-Causa Petendi e il 3-Petitum sono diversi dal I processo, l’unico elemento identico sono i 1-Soggetti, per cui la nuova domanda sarà solo legata da un nesso di pregiudizialità/dipendenza a quella su cui già sussiste il giudicato formale e sostanziale.

Il giudicato sostanziale si è svolto solo sui punti A e B, mentre sui punti C e D si sarà svolta nel primo processo, eventualmente, solo una pronuncia di rito di inammissibilità, con efficacia meramente interna, ovvero endo-processuale. Per cui il nuovo giudizio non verterebbe minimamente sull’accertamento dei punti A e B, i quali sono oggetto di giudicato sostanziale incontrovertibile, e a fronte dei quali ci si troverebbe a violare il ne bis in idem, ma dei punti C e D, per l’accertamento dei quali i punti già accertati AA e BB fanno stato tra le parti.

N.B. Il ‘petitum’ è la somma richiesta a titolo di risarcimento, mentre la ‘causa petendi’ rappresenta le ragioni in fatto e in diritto dell’azione proposta.

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Il libro di Stefano Ligorio: ‘IL RISARCIMENTO NEL PROCESSO CIVILE -errori da evitare, e rimedi esperibili- (Guida Pratica alla luce del Codice Civile, del Codice di Procedura Civile, e della Giurisprudenza in materia)’.

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N.B. Stefano Ligorio, in ambito di tematiche legali, è anche autore di un libro dal titolo: ‘IL RISARCIMENTO NEL PROCESSO CIVILE -errori da evitare, e rimedi esperibili- (Guida Pratica alla luce del Codice Civile, del Codice di Procedura Civile, e della Giurisprudenza in materia)’.

Stefano Ligorio

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