Riflessioni – Chiesa Cattolica Romana (Parte VI) – Il Sacramento cattolico della penitenza (o confessione).

Ad oggi non mi ritengo un credente (non ancora almeno…), tuttavia si è ritenuto necessario, per amor di ‘verità’, denunciare come sia stato, nei secoli, falsato, da parte della Chiesa Cattolica Romana, il messaggio evangelico contenuto nelle Sacre Scritture.
*Articolo tratto dal contenuto di miei vecchi scritti (ovvero di oltre vent’anni fa) qui, semplicemente, ricopiato nella parte di interesse.
N.B. I passi biblici riportati nel seguente studio (nel caso non sia indicato diversamente) sono presi dalla traduzione biblica Nuova Riveduta (società biblica di Ginevra). La parola con carattere maiuscoletto: ‘SIGNORE’, nella traduzione biblica Nuova Riveduta, viene usata per indicare il termine ebraico: ‘Yahweh’ (nome di Dio); la parola con carattere normale: ‘Signore’ è, invece, la traduzione letterale del termine ebraico: ‘Adhonai’. Laddove ricorre ‘Adhonai Yahweh’ è riportato (sempre nella versione Nuova Riveduta) con l’espressione ‘il Signore, DIO’ (per evitare la ripetizione).
La Bibbia non accenna affatto ad un potere di assoluzione, a nome di Dio, dato dal Cristo a una particolare categoria di cristiani (sacerdoti, i quali, del resto, sono inesistenti nel N.T.); tutti i credenti hanno responsabilità verso i loro fratelli che devono aiutare se colpevoli di qualcosa, con la preghiera e l’incoraggiamento personale. I ‘colpevoli’ possono (non devono) confessare i propri peccati alla comunità o a qualche fratello più maturo, del quale si ha una particolare fiducia (oltre a confessarsi con il fratello offeso, chiaramente se c’è un offeso ‘oltre a Dio’) e non ad una speciale categoria di cristiani ‘creata’ apposta da Gesù con poteri superiori agli altri fedeli.
Secondo le Sacre Scritture, ci si può confessare non per ottenere l’assoluzione (fino all’anno 1215 nemmeno nella Chiesa Romana vi era l’assoluzione sacerdotale) o il perdono dei peccati a nome di Dio (solo Dio può dare il suo perdono o la sua ‘assoluzione’), ma solo per chiedere conforto e ottenere preghiere e incoraggiamento. Anche nel caso ci si confessi (come è giusto che sia) all’offeso per ricevere il perdono dell’offesa fatta, mai si potrà avere però l’assoluzione a nome di Dio. Ci si deve confessare particolarmente al fratello offeso (anzi, secondo le Scritture, sarebbe buona cosa che fosse l’offeso stesso a ricercare l’offensore per riconciliarlo con Dio e la sua Chiesa e tentare di ‘legarlo’ nuovamente al Signore inducendolo al pentimento) e costui ha il dovere di perdonare sempre.
L’unica condizione per ottenere il perdono dei peccati è il vero pentimento e il vero ravvedimento congiunti con la vera conversione e il ricorso, in fede, all’Avvocato Divino, Cristo Gesù, il quale perdona sempre, i suoi veri discepoli, da ogni colpa. Nel N.T. oltre alla confessione reciproca si parla anche di confessione pubblica, la quale deve essere anch’essa rigorosamente congiunta con il pentimento, senza il quale la confessione a nulla vale.
La confessione pubblica era quella che attuarono i discepoli di Giovanni il Battista al tempo del loro battesimo: Matt. 3:6; Marco 1:5; era anche quella compiuta dai cristiani di Efeso quando distrussero i loro libri di magia, come narrato nel libro degli Atti 19:18-19.
Secondo la Sacra Scrittura, si può confessare anche ad altri fratelli il proprio problema e non solo all’offeso (quando ce ne fosse uno), magari a uomini di fede spiritualmente più maturi, per avere un consiglio, ottenere preghiera, un aiuto spirituale, ma mai l’assoluzione. La vera Chiesa di Cristo è una grande famiglia di credenti che si amano reciprocamente. Quando uno è nel peccato tutti soffrono e dovrebbero tentare ogni mezzo per ricondurre il colpevole (per ‘legarlo’) sulla via della verità.
Facciamo un po’ di storia:
Accanto alla confessione pubblica, nel corso dei secoli, si collocò la penitenza personale da subire individualmente (mentre nel N.T. è detto solo che il colpevole di un peccato, che avesse scandalizzato il buon nome della locale comunità cristiana e della Chiesa intera, veniva espulso temporaneamente dalla chiesa locale o a volte semplicemente dalla comunione della Santa Cena con gli altri fratelli finché non fosse arrivato ad un vero pentimento e ravvedimento) e si arrivò a istituire delle vere e proprie penitenze per chi avesse commesso un peccato.
Per quelli gravi rimaneva in vigore (come nel N.T.) l’espulsione dalla Chiesa o la privazione dalla comunione della Santa Cena, ma con delle penitenze personali da fare se si voleva rientrare in seguito nella comunità cristiana o ritornare alla comunione della Santa Cena. Inizialmente si poteva fare, nel corso della propria vita, una sola penitenza dopo il battesimo; se si peccava nuovamente, in modo grave, si era dichiarati condannati all’inferno e mai più ammessi nella Chiesa. Alcuni proprio per questo motivo una volta che avevano ‘peccato’, decidevano di attuare la penitenza nella vecchiaia (perché avevano paura di peccare nuovamente e non essere più ammessi nella Chiesa); nel frattempo erano fuori dalla Chiesa (o dal servizio della Santa Cena).
Niente di più stupido e ipocrita. La penitenza non poteva essere compiuta che una sola volta nella vita; in caso di recidiva il peccatore, o il colpevole, non aveva più alcun mezzo di riconciliazione con la Chiesa nemmeno in punto di morte. Per alcuni peccati, inizialmente (come l’omicidio, l’apostasia e l’adulterio),non vi era alcuna possibilità di fare penitenza e di essere riammessi nella Chiesa. In seguito, man mano, le cose cambiarono e la penitenza fu proposta anche per questi tipi di peccato, e non più per una sola volta nella vita, ma per tutte le volte che sarebbe stato necessario.
Tali penitenze, sempre inizialmente, erano pesantissime, in quanto includevano non solo le opere da fare e quelle da non fare, ma anche il tempo per il quale attuarle (giorni, settimane, mesi ed anni).
Queste penitenze in seguito, nel corso dei secoli, si andarono evolvendo attraverso continui alleggerimenti. Alcune penitenze, agli inizi, erano davvero pericolose, ma in seguito si arrivò a renderle meno gravose (inutile dire che tutto ciò mette in ombra il sacrificio unico di Gesù e la vera via per avere il perdono presso Dio: il pentimento e il ravvedimento e non la forza dei sacrifici e delle penitenze corporali e personali).
Le penitenze, nel Medioevo, consistevano in digiuni, veglie, lunghe preghiere in ginocchio o anche in piedi, astensione dall’atto coniugale, arrotolarsi nudi in mezzo alle ortiche, dormire con un cadavere (a decidere la penitenza da fare per ogni individuo era la gerarchia ecclesiastica), la tortura del proprio corpo, giacere nell’acqua fredda (come avveniva specialmente in Irlanda), flagellazioni, ecc..
Dal VI secolo qualche scrittore ecclesiastico iniziò a suggerire di riferire le proprie colpe al sacerdote (o anche a un credente maturo nella fede e quindi non solo all’offeso) per avere la ‘medicina’ conveniente; non lo si doveva fare per obbligazione e per ricevere un’assoluzione (tale iniquità non esisteva ancora, ma nacque nell’anno 1215), ma perché in tal modo il peccatore sapesse da una persona più esperta e matura se le colpe da lui commesse erano ‘veniali’ e quindi non sottoponibili ad alcuna penitenza pubblica e rimossi con la semplice preghiera, o se invece erano ‘gravi’ e tali da dover sottostare alla penitenza pubblica da compiersi obbligatoriamente (come predetto, inizialmente, una sola volta nella vita). I peccati gravi, sottoposti alla penitenza fissata dal sacerdote, da mortali diventano, veniali.
È su queste basi (ovvero sul fatto di confessare al sacerdote, o a un credente maturo nella fede, il proprio peccato, per sapere quale penitenza si dovesse avere e se era un peccato veniale o mortale, per venire a conoscenza se era il caso di fare penitenza pubblica o meno) che sorge la dottrina della confessione auricolare con assoluzione.
Da premettere che per molti secoli, fino al 1200 circa, tale confessione era fatta solo allo scopo di conoscere la gravità del peccato e la relativa penitenza da attuare; mai, però, per avere un’assoluzione. Ma le cose dal 1215, in questo senso, cambiano radicalmente. Come si è più volte detto in altri studi, nella storia della Chiesa Cattolica vi sono stati tantissimi cambiamenti, passi indietro a volte e in avanti altre volte, a prova del fatto che la Chiesa Romana è sempre stata soggetta alle epoche e all’influenza degli uomini di ogni tempo, anziché all’immutabile Parola di Dio.
La penitenza pubblica e quella privata (per i peccati veniali)si fecero concorrenza a lungo e le troviamo ancora affiancate fino al secolo XI, quando la privata, assai più facile da attuare, finì totalmente per soppiantare l’altra.
Nel Medioevo la penitenza poteva essere sostituita con del denaro; le penitenze si trasformarono spesso in offerte di denaro, così un giorno di digiuno si poteva scambiare con ‘tre denari’ e un anno di digiuno con ’22 soldi’ dati ai poveri. In seguito si arrivò persino a poter pagare un altro affinché sostituisse il peccatore nelle penitenze, perfino se a pagare non fosse il peccatore ma un’altra persona. La penitenza pubblica consisteva (ed era data per peccati ‘gravi’, ‘mortali’) nel mostrare agli altri le proprie torture fisiche (flagellazioni, torture sul corpo, confessione pubblica, esclusione dalla Santa Cena o completamente dalla Chiesa) fino al completamento della penitenza che a volte durava mesi e anni.
La penitenza privata consisteva, invece, nella pena per i peccati veniali, in digiuni e preghiere e non si necessitava farli conoscere alla pubblica comunità cristiana. Il sacerdote aveva un ruolo fondamentale, perché era colui che decideva la relativa penitenza da attuare, per cui, nel tempo, si venne a creare la strada per la confessione (fino al 1215 non per avere l’assoluzione) fatta esclusivamente ad egli (ovvero al sacerdote) per sapere quale condanna o pena ricevere. Anche se uno si confessava a un altro credente, in caso di peccati gravi, era invitato ad andare dal sacerdote perché era colui che doveva decidere, in ultima analisi, la pena.
Esistevano dei veri tariffari che stabilivano, per ogni peccato, la pena da subire che poteva durare per alcuni giorni, mesi o anni. In seguito, la scelta della penitenza fu lasciata esclusivamente al sacerdote, senza doversi basare a dei tariffari già decisi, e ridotta ad elemosine o preghiere come rosari, numerosi Ave Maria, Padre Nostro, ecc.. In questo fenomeno penitenziale si inseriscono le indulgenze costituite da interventi della gerarchia ecclesiastica, la quale ‘attingendo dal tesoro della Chiesa’ rimette in parte o del tutto, dinanzi a Dio, la pena temporale dei peccati già cancellati in quanto a colpa. L’indulgenza si divide in ‘plenaria’ (totale), la quale rimette tutte le colpe e le pene temporali dovute al peccato e in ‘parziale’, la quale ne condona una parte più o meno grande. Essa (l’indulgenza), conferita a modo di assoluzione per i viventi e di suffragio per i defunti, è data al di fuori del sacramento della penitenza (confessione), vale a dire in foro esterno, non interno.
Per i primi mille anni circa del cristianesimo le indulgenze sono ignote.
Un esempio di indulgenza nella Chiesa Romana è quella di Urbano II (durante il Concilio di Clermont-Ferrand del 1095), il quale dichiarò che i crociati “ricevevano il pieno perdono dei loro peccati e il frutto della ricompensa nell’aldilà”.
È l’inizio dell’indulgenza ‘plenaria’. Gregorio VIII applicò tale indulgenza anche a colui, il quale, non potendo partecipare personalmente alla Crociata, avesse pagato un’altra persona perché vi prendesse parte in sua vece.
Celestino III assicurava: “I crociati sia che sopravvivano, sia che muoiano, per la misericordia di Dio, per l’autorità degli apostoli Pietro e Paolo e la nostra, siano sicuri di ottenere il perdono della riparazione imposta per quei peccati di cui abbiano fatto una buona confessione”.
Nel XIII secolo, specialmente dopo che il Concilio Lateranense IV nel 1215 ne ebbe parlato sia pure per limitarne la distribuzione da parte dei vescovi, sorse il concetto del ‘tesoro della Chiesa’ costituito dai meriti di Gesù, di Maria e di tutti gli altri ‘santi’.
Da esso il Papa e i vescovi potevano attingere a piene mani, in virtù del loro potere giurisdizionale, e distribuirne la parte che volevano ai credenti, in modo da ridurre autoritativamente la loro espiazione dei peccati.
Agostino di Trionfo, che scrisse una Summa Teologica per ordine di Papa Giovanni XXII, assicurava che anche il purgatorio stava sotto il controllo papale e che, volendo, il Santo Padre avrebbe potuto liberare le anime quivi detenute, ma consigliava il Papa di non interessarsene. Tuttavia, Callisto III, in una sua bolla inviata nel 1457 al re Enrico di Castiglia, promise un’indulgenza applicabile anche ai defunti per chiunque avesse pagato ‘200 maravedi’ a favore della Crociata. Il Concilio di Trento (4 dicembre 1563), dopo aver scomunicato chiunque negasse il potere della Chiesa nel dare le indulgenze, oppure sostenesse la loro inutilità, ne regolò la concessione e ne proibì la questua; stabilì che i preti potevano ricevere elemosine dai fedeli, non però come pagamento delle indulgenze, fino ad arrivare agli odierni cambiamenti nell’ambito cattolico riguardo sempre a queste (indulgenze).
Nel corso dei secoli Concili e Papi hanno dichiarato numerose cose inique come, ad esempio, il caso dell’indulgenza a chi partecipava alle Crociate (quindi per chi fosse andato ad ‘uccidere’), a chi pagava un altro per andarvi al proprio posto o pagava le spese per tali guerre, ecc., senza contare le altre inique dottrine e dogmi di fede abominevoli e le decisioni conciliari e papali, contrarie alla Parola di Dio: Inquisizione, la proibizione di leggere e tradurre la Bibbia nella lingua volgare (lingua del popolo) e tante altre nefandezze incalcolabili.
L’infallibilità delle direttive conciliari e papali, dichiarata dai teologi cattolici, costringe la Chiesa Cattolica odierna a dover, in un certo qual modo, seguire tutte le dottrine e i dogmi emanati di ogni tempo, ed è proprio per questo problema che ‘intelligentemente’ e ‘maliziosamente’ orienta e spiega dottrine, fatti e avvenimenti passati, in un modo più consono all’epoca odierna. Infatti, l’Inquisizione, le Crociate e il disastroso commercio delle indulgenze, e quant’altro ancora, sono state tutte cose possibili solo in epoca Medievale; oggi, anche volendo, tali cose non sarebbero più ammissibili e non potrebbero certamente passare ‘inosservate’ a un mondo ‘acculturato’ e moderno com’è quello odierno, al contrario dell’ignoranza più totale che padroneggiava, nel popolo, nelle epoche passate.
Entriamo adesso nell’analisi della questione:
Come può un sacerdote perdonare un’offesa e per giunta assolvere un individuo, se tale torto non è stato commesso ai danni della sua persona?
Secondo le Sacre Scritture, un credente può perdonare un fratello per le offese da lui subite (mai assolverlo), ma l’assoluzione vera e propria è Dio solo che può darla, perché Egli solo è Dio, e in quanto tale Egli solo può conoscere se il cuore di un uomo è contrito dal pentimento. Gesù ordina al credente di perdonare i peccati subiti, non quelli che hanno subito gli altri (Luca 17:3-4; Matt. 18:15-17; Matt. 18:21-22). Ogni credente può e deve perdonare all’offensore i torti subiti, ma non può perdonare un uomo per cose commesse contro un’altra persona.
Purtroppo, invece, è quanto fa la Chiesa Cattolica con la confessione auricolare; immaginate un uomo che, avendo tradito la propria moglie, invece di confessare a lei il proprio torto commesso, va dal sacerdote e questi, come se fosse l’Iddio Onnipotente in terra, non solo lo perdona, ma lo assolve, chiedendogli la penitenza magari con la recita di qualche Ave Maria e Padre Nostro.
Niente di più stupido e assurdo! Il perdono e l’assoluzione di Dio hanno poco a che vedere con il perdono dell’offeso; o meglio, se un credente non perdona il fratello pur pentito, ciò non vuol dire che Dio non abbia assolto dal peccato il colpevole che si è veramente ravveduto. Così vale anche per il contrario; anche se un credente perdona il fratello colpevole, ciò non vuol, necessariamente, dire che Dio abbia assolto questi dalla colpa commessa, se egli non si è veramente ravveduto. Dio solo potrà vedere se c’è stato un vero pentimento, o meno, e agire di conseguenza. Tanto più, questo discorso vale a riguardo dell’assurda assoluzione sacerdotale, ritenuta avere anche effetto per Dio. Il sacerdote pretende di essere un mediatore fra Dio e il penitente, il quale va da lui a confessare i propri peccati. Il sacerdote, come mediatore e rappresentante di Gesù, decide o meno di assolverlo dalle proprie colpe.
Cristo Gesù uomo, invece, secondo le Sacre Scritture, è l’unico mediatore fra Dio e gli uomini: 1 Timoteo 2:5-7. Il vero credente pentito non ha bisogno di sentirsi dire da qualcuno: ‘ti assolvo dal tuo peccato’, perché ha piena fiducia nella potenza del perdono di Dio attraverso il nome di Gesù. La forma della confessione cattolica è: “Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Il confessore annuncia il perdono dei peccati non a nome di Dio, ma a nome personale ed individuale: “io ti assolvo”. Il perdono quindi non appartiene al giudizio di Dio, ma al giudizio del confessore. Si tenga, infatti, presente che, in modo del tutto antibiblico, il confessore non dice “Dio ti perdona” o “Dio ti assolve”, ma “Io ti assolvo”.
Il confessore, inoltre, è tenuto a fare delle domande ben precise per sondare le coscienze; l’individuo che si confessa, d’altra parte, è tenuto a raccontare i propri fatti, i propri segreti più intimi anche nei dettagli (anche se oggi si è perso un po’ l’uso di questa parte della confessione cattolica). Questo, molte volte, ha allontanato degli individui dalla Chiesa Romana perché risultava essere una cosa priva di logica e di buon senso.
Come potrà il confessore osservare a pieno l’immaginario mandato di Gesù (Giov. 20:23) riguardo al confessare e assolvere o meno il colpevole? Non dovrà fare affidamento sul proprio umano e debole discernimento delle cose esteriori? Può egli leggere nel cuore del ‘penitente’ per trarne la giusta decisione in merito? No, di certo! Ecco che l’uomo assolve a giudizio e titolo personale e non secondo Dio.
Quanti di quelli che sono e vengono assolti lo sono effettivamente da Dio? Nel penitente si annida l’idea che il confessionale sia una sorta di lavanderia dove ci si può lavare i panni sporchi, purificarsi dai propri peccati, ed essere assolto dalle proprie colpe. La confessione, oltre che verso Dio, è necessaria anche verso l’uomo, ma solo quando anche questi sia stato offeso dal penitente. È più difficile mettere in opera questo che non il confessarsi alle orecchie di un confessore di professione e che, oltre tutto, non è la persona offesa. In tutto questo viene a mancare la vera comunione fraterna. Un uomo offeso può dire a colui che chiede perdono (oltre ad averlo già perdonato): ‘Dio ti perdoni’, oppure ‘ravvediti e prega, affinché Dio ti perdoni’ (Atti 8:22-24), ecc., ma mai nessuno, per qualsiasi motivo, può avere la presunzione di dire: “Io ti assolvo nel nome del Padre …..”; questa dichiarazione, per l’appunto, è una vera e propria bestemmia; è, in un certo senso, farsi uguale a Dio riguardo al giudizio e al perdono (Marco 2:3-11; Luca 5:20-24), e ciò soprattutto nei casi in cui tale ‘confessore’ non centra un bel niente col peccato o l’affare dell’uomo penitente, ovvero non è lui ad essere stato offeso. Giov. 20:23: “A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti”; Gesù parlava a tutti i discepoli: Luca 24:33-40; Giov. 20:19-25; i due passi raccontano la prima apparizione di Gesù in mezzo a tutti i discepoli che non erano solo gli apostoli.
Queste parole, del passo di Giov. 20:23, Gesù le disse a tutti i suoi discepoli e non solo agli apostoli: Luca 24:33. Infatti, è a tutti i suoi discepoli che Egli profetizza la discesa dello Spirito Santo su di loro, i quali dovevano rimanere a Gerusalemme fino ad allora: Luca 24:33,47-49. Infatti, a Pentecoste circa centoventi suoi discepoli vennero battezzati dallo Spirito Santo, quindi è anche a essi che Gesù rivolse le parole in Giov. 20:23 che indicavano, come in Luca 24:47-48, la predicazione e il conseguente battesimo da fare a chiunque avesse creduto in Cristo per ricevere il perdono dei peccati, in caso contrario, se qualcuno non avesse creduto, tali peccati sarebbero stati ritenuti.
I teologi cattolici dal passo di Giov. 20:23 estrapolano la loro dottrina della confessione con assoluzione sacerdotale; in realtà, oltre al fatto che tale passo non indica assolutamente tale iniqua dottrina, è evidente come tali parole di Gesù erano dirette, come abbiamo visto, a tutti i discepoli e non solo agli apostoli, come dicono, maliziosamente, i teologi cattolici.
Quindi se la loro iniqua dottrina fosse giusta, e fosse davvero espressione di quanto il passo vuol dire, dovremmo allora facilmente anche constatare che in quanto parole dette da Gesù a tutti i discepoli, tale ‘potere’ assolutorio spetterebbe a tutti i cristiani e non solo ai sacerdoti, e si può immaginare che alla Chiesa Cattolica ciò non piacerebbe per niente.
Solo Dio può perdonare, ovvero assolvere l’uomo dai peccati: Marco 2:7; Luca 5:21 (coloro che si rivolsero in tal modo a Gesù, nei due passi appena citati, non sapevano che Egli poteva davvero assolvere chiunque in quanto era Dio e poteva anche leggere, di conseguenza, nei cuori delle persone). Bisogna anche, ironicamente, far emergere che se per ricevere il perdono dei peccati non basta una richiesta di perdono a Dio direttamente e la riconciliazione con il fratello o la sorella offesi, ma bisogna andare anche a confessarsi a un sacerdote, altrimenti, come dice il Catechismo cattolico, non si può avere l’assoluzione, bisognerebbe che ogni fedele avesse sempre con sé un sacerdote personale, così in caso di morte improvvisa potrebbe chiedere di essere assolto in fretta dai proprio peccati; ciò però sarebbe alquanto impossibile.
È abbastanza chiaro che la richiesta diretta a Dio di perdono sia sempre quella ammissibile e possibile. Il sacerdote viene a far scadere il rapporto personale con Dio in quanto il penitente deve andare innanzitutto da lui per essere, completamente, assolto (e non unicamente da Dio); tutto ciò mette l’individuo in una condizione tale da avere più fiducia nel sacerdote che non in Dio stesso.
Un credente, il quale per tutta la propria vita abbia assolto il comando cattolico della confessione al sacerdote, che per anni si è recato da questi per ricevere l’assoluzione dai suoi peccati, un giorno improvvisamente, ritrovatosi moribondo su un letto, e senza alcun sacerdote che possa assolverlo, si ritroverebbe a dover morire con la colpa e la pena dei peccati commessi dall’ultima confessione, senza poter essere assolto da nessuno e quindi dover essere ritenuto colpevole dinnanzi a Dio, perché nessun sacerdote era lì pronto per poterlo assolvere col sacramento della penitenza; quei peccati, ritenuti tali, perché senza assoluzione, renderebbero vana la fatica di quell’uomo che per anni si è confessato al sacerdote obbedendo al comando cattolico.
Giacomo 5:16; le istruzioni di Giacomo in questo passo si riferiscono al confessare i propri peccati nei confronti dell’individuo offeso. Egli non intende dire di confessare i propri peccati agli anziani (o presbiteri), addirittura poi per riceverne l’assoluzione, ma di farlo nei confronti dell’offeso. Gesù insegnò che il modo migliore di correggere chi sbaglia dovrebbe essere esclusivamente quello faccia a faccia tra due persone: Matt. 18:15-17; se ciò non bastasse devono essere coinvolte una o due altre persone come testimoni. Soltanto nel caso che neppure questo sia sufficiente, la questione dev’essere portata a conoscenza dell’intera comunità locale. Le confessioni pubbliche non sono comunque da incentivare perché, a volte, fanno più male che bene, e ciò per svariati motivi; solo nel caso che esse siano necessarie, per il penitente e per la comunità, possono, o devono, essere svolte.
Gesù insegnò che il modo di correggere chi sbaglia dovrebbe essere, inizialmente, il più riservato possibile: Matt. 18:15-17. Luca 11:1-4; Matt. 6:9-12; “e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore…” c. 11:4 di Luca; Matt. 6:12 “rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”. I credenti possiamo perdonare solo le colpe dei propri debitori, non quelle di altri. Come può un uomo, il quale non ha nulla a che vedere con l’offesa commessa dal penitente a un altro uomo, perdonare il colpevole se egli non vi ha avuto nulla a che fare e non è vittima di alcunché da parte di questi? Sarà l’uomo che ha ricevuto il danno dal penitente a perdonare al suo debitore il torto subito; non può qualcun altro, estraneo ai fatti (il sacerdote), e non vittima di alcun tipo di torto, perdonare (anzi, peggio ancora assolvere) qualcuno, perché egli non è parte in causa.
In ogni caso, sarà solo possibile un perdono umano e non un’assoluzione divina; mai uno potrà dire “Io ti assolvo dal tuo peccato”, in quanto questo spetta solo a Dio, l’unico che può giudicare, condannare o perdonare senza obbiezioni da parte di alcuno e l’unico anche che può scrutare il pentimento e il ravvedimento, o meno, nel penitente.
La Chiesa Cattolica Romana afferma che solo con il sacramento della confessione si può avere l’assoluzione dei peccati; in pratica, non basta confessarsi a Dio personalmente, ma bisogna confessarsi anche al sacerdote, il quale nel nome di Dio darà l’assoluzione.
Come abbiamo visto non è stato così per circa 1200 anni, ma dal 1215 si decise tale dogma di fede facendone addirittura un sacramento pari addirittura al sacramento del battesimo come importanza. È oltremodo strano che per 1200 anni un sacramento così importante, per la Chiesa Cattolica, non sia esistito per niente e ciò, se fosse ancora necessario, a ulteriore prova del fatto che è un’invenzione umana.
Se fosse ispirata da Dio, tale direttiva, non sarebbe di certo mancato il suo uso sin dagli inizi e, dunque, non solo dopo dodici secoli. Il sacramento della penitenza o confessione auricolare ha una storia piena di controversie, dubbi, reazioni e progressi che tentano di raggiungere la precisione della dottrina teologica e la sua espressione, benché la facciano scostare sempre più dal pensiero biblico.
Di secolo in secolo, a partire dalla seconda metà del II secolo, si idealizzarono teorie, in seguito le si fecero progredire nel tempo, poi ancora alcune le si cambiarono, altre diventarono fondamentali e quindi arricchite di nuovi elementi e pensieri teologici per arrivare poi alla confessione con assoluzione decisa dal Concilio Lateranse IV del 1215.
Prima di allora la confessione non era assolutoria, ma solo deprecativa. Il sacramento cattolico della confessione con l’assoluzione oggi sta certamente subendo un declino soprattutto da parte dei giovani; fra le cause principali vi è certamente da includere l’automatismo della confessione (senza esserci la conversione) congiunto con la concezione troppo individualistica del sacramento che mette l’individuo di fronte a un sacerdote, il quale lo assolve ‘magicamente’ dai propri peccati, anziché indurre il colpevole a riparare il male fatto, al fratello o fratelli offesi o danneggiati, e a un ravvedimento completo con una pratica di vita veramente cristiana.
Quanti cattolici si saranno mai chiesti se Dio convalida davvero ciò che il sacerdote dichiara con l’assoluzione durante il sacramento della confessione? È necessario rimuovere le ideologie inique, i pensieri teologici, i vari dogmi e le varie dottrine introdottesi nel corso dei secoli. Un passo che i cattolici prendono iniquamente per rinforzare la loro dottrina del sacramento della penitenza è Matt. 18:18; cercherò di darne la giusta interpretazione, però sarà necessario leggere dal v. 15 al v. 20. Matt. 18:15-20; nonostante l’apparente somiglianza verbale delle parole di Gesù dette a tutti i suoi discepoli in Matt. 18:18 con le altre rivolte da Gesù a Pietro in Matt. 16:19, non si può concludere che il medesimo ‘potere delle chiavi’ dato a Pietro (Matt. 16:19) sia stato poi trasmesso a tutti gli apostoli o a tutti i credenti (come dicono taluni) solo perché si nota un uso similare di parole usate da Gesù.
Il contesto chiaramente ci impedisce di fare ciò; nel caso di Pietro le parole di Gesù si riferiscono alla fede dall’apostolo espressa e il ‘legare e lo sciogliere’ sono in stretto collegamento con il ‘potere delle chiavi’ dato a Pietro, mentre, nel c. 18:18 le parole di Gesù si ricollegano con il perdono che l’offeso deve essere pronto a dare all’offensore. In questo secondo caso, poi, non vi è alcun accenno al collegio degli apostoli (inoltre, non si parla delle chiavi del regno dei cieli), perché si tratta di singoli cristiani, i quali, al massimo, chiedendo la collaborazione in questo loro intento di pace a dei testimoni, o alla collettività intera, non disturbano gli apostoli, ma i testimoni e la comunità locale.
Non vi è alcuna traccia che tali parole (Matt. 18:18) fossero dirette solo agli apostoli anziché a tutti i credenti, c. 18, v. 18; il “voi”, “Io vi dico”, qui usato, va inteso nell’identica maniera del successivo v. 19: “E in verità vi dico anche: se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli” e si riferisce quindi non agli apostoli soltanto, bensì a tutta la comunità.
Tale connessione è ribadita dall’avverbio “E in verità vi dico anche (pure)” che ricollega le due frasi fra loro (il v. 18, con il v. 19 e 20)e che quindi riguardano tutta la Chiesa e non solo il gruppo dei dodici come pensano, invece, i teologi cattolici riguardo al v. 18. Matt. 18:18: “Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo”, queste parole Gesù le ha rivolte a tutti i suoi discepoli, cioè a tutti quelli che riconoscono in Lui il Salvatore, il Figlio di Dio.
Quindi anche oggi, in virtù della fede in Cristo, i credenti rientrano come riceventi del messaggio di Gesù di Matt. 18:18. Per capire meglio ciò che tratteremo sarebbe meglio che il lettore leggesse attentamente il c. 18 di Matt. dal v. 15 al v. 20. Il v. 15 ci porta a capire che se si convince il credente, il quale ha peccato, a ritornare sulla retta via, direttamente e solamente attraverso l’offeso, o con uno o due testimoni, o con l’assemblea della chiesa locale di cui il colpevole è membro, questi può essere riacquistato nuovamente al Signore (‘legato nuovamente al Signore’).
Qualora qualcuno (un membro di una chiesa) dovesse causare una grave offesa o un danno a un fratello, questi (il fratello offeso) è tenuto per amore cristiano ad ammonire e cercare di convincere l’offensore al ravvedimento; se questi non vuole ascoltare l’ammonimento è necessario prendere uno o due testimoni per dare forza al convincimento del ravvedimento e se non ascolta anche questi si rendono necessari la consultazione e il proponimento dell’affare all’assemblea della chiesa locale. Il terzo passo necessario quindi, in caso di ostinazione del fratello colpevole, consiste, come già detto, nel ricorso all’assemblea locale, sempre con l’intento di riconciliare il fratello offensore con il fratello offeso e con Dio, non di emettere una sentenza di assoluzione o di condanna; nel caso che anche questo tentativo fallisse, il colpevole “sia per te come il pagano e il pubblicano”.
Usualmente si intende questa frase “sia per te come il pagano…” come una scomunica: ‘sia scomunicato e cacciato (il peccatore) fuori dalla Chiesa’, ma in tal caso nel passo ci sarebbe dovuta essere la frase generica ‘sia come il pagano….’, senza la limitazione “sia per te”. Si tratta quindi di una questione personale non comunitaria. È chiaro, comunque, che un credente non deve perdere mai la speranza e l’iniziativa di cercare di indurre il fratello colpevole al pentimento, di riconciliarlo a sé, alla Chiesa, e innanzitutto a Dio.
Il Concilio di Trento condanna l’ipotesi che nel v. 18 il messaggio tocchi tutti i credenti; anzi in esso vi vede il potere assolutorio dei sacerdoti nel sacramento della confessione. Così, infatti, suona il canone del Concilio: “Se uno dirà che non solo i sacerdoti sono ministri dell’assoluzione, ma che a tutti i fedeli Cristo ha detto: tutto ciò che legherete in terra sarà legato in cielo e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo (Matteo 18:18)….sia scomunicato”.
È chiaro che né i sacerdoti, né i ‘comuni’ credenti hanno alcun potere assolutorio e che, inoltre, il passo in questione si riferisce a tutta la collettività. Il ‘legare e sciogliere’ non vuol, direttamente, intendere la scomunica, ma, in primo luogo, tratta di quanto il credente possa fare per il fratello impenitente (‘legarlo’ nuovamente alla Chiesa e quindi anche a Dio) e di quanto un impenitente, il quale persiste nel suo comportamento (si ‘scioglie’ dal legame della Chiesa e quindi anche da Dio)arrivi a non essere più ‘legato’ alla Chiesa e a Dio (“tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo”).
Il credente impenitente si ‘distacca’ dalla Chiesa, si ‘scioglie’ da essa e da Dio; ciò vale anche in cielo per Dio; il credente che viene riportato al buon senso, al ravvedimento, sarà ‘legato’ nuovamente alla Chiesa e ciò varrà anche in cielo presso Dio. Il contesto del vangelo di Matteo non riguarda affatto l’assoluzione dei peccati da parte di uomini, della quale mai la Bibbia parla, per cui nessun cristiano può (nemmeno un apostolo o un vescovo)assolvere, autoritativamente, nel nome di Gesù i peccati di taluni.
Nel caso venisse rivolta un’offesa nei riguardi di un credente, questi, può dare personalmente il suo perdono, ma quando si tratta di offese o danni non rivolti contro la sua persona, non può far altro che pregare Dio per questo fratello colpevole, come dovrà anch’egli (il colpevole) pregare, personalmente, il Salvatore nel nome di Cristo Gesù, affinché gli venga perdonato il peccato da Dio.
In ogni caso, il colpevole penitente dovrà andare dall’offeso (nel caso ce ne sia uno) a umiliarsi nel chiedere perdono (mai nessuno può assolvere alcunché ad alcuno). Quando il colpevole, all’inizio della sua conversione, era stato evangelizzato da un credente, chi lo aveva evangelizzato, dietro la conversione del ricevente del messaggio, poteva ben dire di aver ‘legato’ tale uomo a Dio, così poteva dire ugualmente quel credente che avesse riportato sulla retta via quell’uomo convertito che si fosse poi macchiato di un peccato contro un fratello e contro Dio. Secondo le Sacre Scritture, il credente non deve aspettare che il proprio fratello offensore gli venga a chiedere perdono, ma dev’essere lui stesso ad anticiparlo e a spronarlo con l’ammonimento e con l’amore, verso il ravvedimento dal male commesso, perché così facendo, come dice Gesù, si riacquista il fratello (lo si ‘lega’ nuovamente )nello Spirito d’amore e verità a Cristo Gesù e alla Chiesa.
Ecco un esempio: chi pecca gravemente contro un fratello ‘lega’ se stesso al peccato compiuto e si ‘scioglie’ dal legame fraterno e di Cristo. Chi può ‘scioglierlo’ dal legame del peccato operato o chi può ‘legarlo’ nuovamente alla Chiesa e a Cristo? Se chi ha peccato si pente del male operato e chiede perdono a Dio e all’offeso, è egli stesso, che con il suo ravvedimento e di sua iniziativa si ‘scioglie’ dal legame del peccato operato e si ‘lega’ nuovamente alla fratellanza e a Cristo. Se tale ravvedimento avviene per mezzo di un altro credente sarà stato questi, indirettamente, che avrà ‘sciolto’ il colpevole dal legame del peccato attuato e lo avrà ‘legato’ allo Spirito dell’amore della comunità cristiana e a Dio stesso.
Ogni male che il credente causa ricade, secondo le Sacre Scritture, sempre su se stesso a propria condanna, e questo gli crea un legame con il peccato; finché non si pente e chiede perdono il legame rimane. Se il colpevole pentito va dal fratello offeso e umiliandosi chiede perdono, egli sarà ‘legato’ nuovamente al Signore e al fratello (il fratello offeso dovrà sempre e comunque perdonare) infatti, così è detto in Matt. 18:18-20.
Se un fratello, da solo, o insieme a uno o due testimoni (Matt. 18:15-17), o con la chiesa locale, convincono il colpevole a ravvedersi, questi avranno riacquistato il credente (‘o legato’) a Cristo e al fratello offeso (e nel caso il colpevole fosse stato espulso dalla comunità locale, perché colpevole di un peccato che ha creato scandalo ad essa, sarà ‘riacquistato’ nuovamente anche alla chiesa) com’è detto in Matt. 18:15-20. Matt. 18:18; tutto ciò che i credenti avranno ‘legato’ o ‘sciolto’ in terra sarà ‘legato’ o ‘sciolto’ anche nei cieli. Ciò significa anche che le giuste decisioni dei credenti, in comunione tra loro, saranno in completo accordo e comunione non soltanto tra di loro, ma anche con il Cristo, con lo Spirito Santo e con la Parola di Dio (Atti 15:19-23,28).
Se un fratello ascolta la riprensione (Matt.18:15), si potrà ben dire di averlo ‘guadagnato’ al Signore. Tenendo quindi conto di tutto il contesto del N.T. possiamo dire che i discepoli del Signore, per quanto riguarda l’evangelizzazione, con l’annunzio dell’evangelo, dichiarano che una determinata persona non credente è ‘legata’ ancora al peccato se non accetta il Cristo e la sua Parola; se essa, invece, si converte dichiarano che è ‘sciolta’, cioè libera dal peccato ed è, invece, ‘legata’ a Dio (diviene un figlio o una figlia di Dio). Pietro si incontra con Simone il mago, colpevole di voler comperare con del denaro il potere di donare lo Spirito Santo, ma Pietro, senza alcuna esitazione, gli fa capire la gravità della sua colpa: Atti 8:18-24 “..Il tuo denaro vada con te in perdizione….Ravvediti dunque di questa tua malvagità; e prega il Signore affinché, se è possibile, ti perdoni il pensiero del tuo cuore….Simone rispose: <Pregate voi il Signore per me, affinché nulla di ciò che avete detto mi accada>”.
Dunque, il perdono non viene da un’ipotetica assoluzione umana, bensì dal Signore che il colpevole pentito invoca nella preghiera. Lo capisce bene l’ex mago Simone, il quale, al sentirsi dire che aveva peccato, non chiede perdono (o addirittura un’assoluzione) a Pietro, ma domanda preghiere. Anche Giovanni pur avendo riferito che Gesù ha affidato ai suoi discepoli la missione di perdonare (o ‘rimettere’) i peccati (attraverso la predicazione e il battesimo) suggerisce (1 Giov. 2:1-2) ai colpevoli di rivolgersi a Gesù (e non agli apostoli o ad altri); egli suggerisce ai fratelli di pregare per i peccatori (1 Giov. 5:16), senza alcun bisogno di assoluzione sacerdotale (1 Giov. 1:7-9), e il perdono verrà dato da Gesù purché vi sia pentimento e la volontà di non commettere più gli stessi errori. Mai un gruppo di credenti (nemmeno gli apostoli) nel N.T. ha dato l’assoluzione dei peccati.
Il ‘ministero della riconciliazione’, inoltre, consisteva nel predicare a tutti, ebrei e gentili (i pagani), che, in Cristo, tutti coloro che credono possono essere riconciliati con Dio, divenire giusti e santi per mezzo del Cristo e infine essere salvati: 2 Corinzi 5:20. Nella circostanza che uno persista nel peccare la Scrittura ammette la scomunica da parte della chiesa locale di tale individuo: 1 Corinzi 5:1-5; nel passo è Paolo a farlo semplicemente perché tale comunità non vi aveva provveduto, sebbene tale iniquità era ormai da tempo conosciuta presso i membri di quella chiesa.
Questa scomunica non ha lo scopo di punire, bensì quello di salvare il colpevole. Costui spinto dall’esclusione dall’assemblea o semplicemente dalla Santa Cena (in questo caso raccontato nel passo, invece, viene cacciato via dalla chiesa locale), e dai fratelli che ‘non lo salutano più’, né lo trattano fraternamente come prima, dovrebbe essere mosso a riconoscere il proprio torto, a tornare a Dio, e a porsi con più fermezza di fede nei riguardi di Gesù e della Chiesa.
Il v. 5 del cap. 5 di 1 Corinzi dice: “ho deciso che quel tale sia consegnato a Satana, per la rovina della carne, affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore Gesù”, questo significa probabilmente che, in virtù del suo potere apostolico e in virtù del peccato che quel tale aveva commesso (quel tale aveva avuto rapporti sessuali con la matrigna), e non avendo la chiesa locale preso provvedimenti, Paolo dà costui in balia di Satana, il quale probabilmente gli avrebbe causato malattie fisiche. Ciò avverrà affinché quel tale, escluso dall’assemblea, dalla protezione di Gesù (e soprattutto a motivo delle conseguenze fisiche e spirituali del suo grave peccato) e lasciato in balia di Satana, possa fermamente ravvedersi da tale azione peccaminosa e tornare pienamente a Cristo e alla sua Chiesa.
La temporanea esclusione del colpevole dal culto della Santa Cena o addirittura dall’adunanza dei fratelli della chiesa avviene per il suo bene e per amore, per poter permettere allo Spirito Santo di avere un’azione più efficace su quell’uomo; in pratica, il peccatore sarà ‘abbandonato’ alla sua stessa realtà di peccatore. Lo Spirito come un fuoco scenderà su di lui e dentro di lui; i sensi di colpa, le sofferenze graveranno su di lui, tanto da portarlo (se Dio ‘permette’) a un vero ed efficace pentimento, e quando egli si ristabilirà spiritualmente lo farà con cuore sincero e in quel medesimo momento non mancheranno (per mezzo dello Spirito Santo che guiderà i fedeli) il perdono e la riammissione nella Chiesa di Dio.
Secondo le Sacre Scritture, la totale tolleranza in ambito cristiano non è sempre sinonimo di amore, perché ciò spesso non porta a far bruciare dentro il credente il male che vive, ma l’amore mascherato con la severità è quello che porta buoni frutti e in modo duraturo. I peccatori rimossi dalla comunione fraterna (con la cosiddetta scomunica), secondo alcuni passi (anche se la Bibbia non dice apertamente come vi venivano riammessi) come ad esempio quello di 2 Corinzi 2:5-9, erano accolti (dopo un determinato tempo che variava a seconda della gravità del peccato commesso che aveva scandalizzato la chiesa locale e del tempo di raggiungimento del ravvedimento da parte del colpevole) dalla comunità stessa che prima gli aveva espulsi purché fossero giunti a vero ravvedimento.
Nel caso di colpevoli che possono divenire un cattivo esempio a tutta la comunità, come gli oziosi di Tessalonica che in attesa del ritorno di Gesù, da loro ritenuto imminente, non volevano nemmeno lavorare, l’apostolo scrive di non associarsi con loro: “…che vi ritiriate da ogni fratello che si comporta disordinatamente e non secondo l’insegnamento che avete ricevuto da noi” 2 Tessalonicesi 3:6; “…notatelo, e non abbiate relazioni con lui, affinché si vergogni. Però non consideratelo un nemico, ma ammonitelo come un fratello” 2 Tessalonicesi 3:14-15.
Non si tratta ancora di una scomunica, perché il tale sarebbe stato comunque ritenuto pur sempre un fratello. I primi cristiani, riuniti in piccoli raggruppamenti dalla solidarietà assai viva, risentivano duramente la rottura temporanea delle relazioni sociali. Il tono diviene ancora più duro con l’eretico in Tito 3:10-11: “Ammonisci l’uomo settario una volta e anche due; poi evitalo; sapendo che un tal uomo è traviato e pecca, condannandosi da sè”.
Qui alla fine di questa frase non si parla più di un uomo come fratello, bensì come di uno che sta già al di fuori della Chiesa: ‘poi evitalo’ e ‘condannandosi da sè’. Anche Giovanni non vuole che si saluti un eretico, perché: 2 Giov.v.10-11 “Se qualcuno viene a voi e non reca questa dottrina non ricevetelo in casa e non salutatelo. Chi lo saluta, partecipa alle sue opere malvagie”.
Non si tratta però del saluto odierno, segno di pura educazione, bensì del saluto orientale, pieno di effusione che mostrava una piena solidarietà con il fratello o con l’amico anche nelle sue opere malvagie. Ogni credente può rimettere (perdonare) l’offesa ricevuta da un fratello, se questi si pente e chiede il perdono. E come dice il Signore a Pietro è bene che i credenti rimettano (perdonino) un’offesa (un peccato) all’offensore tutte le volte che chi pecca si pente e vuole essere perdonato: Matt.18:21-22. Del resto non avviene forse anche tra il credente e Dio questo?
Non sono i credenti che, dopo aver peccato si rivolgono a Dio per avere il perdono e lo ottengono, e dopo un po’ di tempo si prostrano nuovamente a Lui per richiedergli il perdono per la stessa mancanza (stesso peccato) o per qualcos’altro, e se pentiti Egli li perdona sempre? Ebbene, se Dio perdona sempre i suoi fedeli, tanto più i suoi discepoli debbono farlo con i loro fratelli. Giacomo 5:16: “Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti”; nel caso uno non ne voglia sapere, dico nel caso uno pecchi contro la comunità cristiana e non ne voglia sapere di pentirsi, gli anziani della chiesa locale possono decidere di comunicare a tutti i membri della comunità di negargli il saluto e perfino di partecipare alla Santa Cena o addirittura essere espulso completamente dall’assemblea: 2 Tessalonicesi 3:14-15; 1 Corinzi 5:1-5; 2 Corinzi 2:5-11. Essendo estraniato dalla comunità e lasciato nelle mani di Satana (come dice Paolo) questo uomo soffrirà; il fine però è farlo arrivare alla ragione, al pentimento e al ravvedimento ed essere, quindi, liberato (‘sciolto’) dal peccato e con gioia nuovamente accolto (‘legato’) nella comunità. Saranno gli stessi membri o solo gli anziani ‘a scioglierlo’ dalla conseguenza del peccato commesso contro Dio e contro la comunità cristiana, riammettendolo (‘legandolo’) nuovamente ai fratelli e alla chiesa locale.
Dio vuole che i credenti siano amorevoli gli uni verso gli altri; questa soluzione, seppure drastica, Paolo ci spiega che, invece, nasconde un fondo di bontà divina, perché fatta col fine di convincere quel fratello, che ha peccato e che non si pente, a tornare nella santità della Chiesa di Dio con forza e decisione, per essere, in virtù del suo ravvedimento, salvato. Quindi, come già affermato il potere di ‘legare e sciogliere’ comporta anche la facoltà di una chiesa locale di esercitare la disciplina nei confronti dei suoi membri indegni.
La chiesa locale, mediante gli anziani, può mettere un suo membro ‘fuori comunione’ (fuori dalla partecipazione alla Santa Cena)o fuori dalla chiesa stessa locale, non riammettendolo finché non si sia appurato un vero e sincero ravvedimento da parte del colpevole: 1 Corinzi 5:1-5; 2 Corinzi 2:5-11. Quando i cristiani esercitano tali funzioni secondo la volontà di Dio, ogni loro decisione o dichiarazione è avallata da Lui stesso.
Ecco quanto dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 976: “ ...Proprio donando ai suoi Apostoli lo Spirito Santo, Cristo risorto ha loro conferito il suo potere divino di perdonare i peccati: <Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi> (Gv. 20,22-23)”.
Matt. 6:11-12: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”.
In Matt. 6:14-15 Gesù dice: “Perché se anche voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro Celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.
Luca 11:4: “e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore; e non ci esporre alla tentazione”.
Notate come il verbo ‘rimettere’ non significhi altro che ‘perdonare’, come lo si vede nell’insegnamento della preghiera di Gesù dove il verbo ‘rimettere’ di Matt. 6:11-12 fa posto al verbo ‘perdonare’ in Luca 11:4.
Chiarito che non vi è alcun ‘potere magico’ da svelare nel verbo ‘rimettere’ perché Gesù lo intende allo stesso modo del verbo ‘perdonare’ e, dunque, non come fanno i teologi cattolici che nel passo di Giov. 20:21-23 vi vedono nella parola ‘rimettere’ un qualcosa di ‘magico’, ovvero il potere di perdonare i peccati (e peggio ancora di assolvere) indipendentemente poi dall’esserne l’offeso o meno; un potere dato da Dio che secondo i teologi cattolici si esprimerebbe nel ministero dato ai ‘sacerdoti cattolici’ di assolvere i penitenti dai loro peccati commessi contro altri e contro Dio, senza che chi rimette abbia mai avuto qualcosa a che fare con tali avvenimenti.
Notare, invece, come Gesù nell’insegnamento della sua preghiera dice: “e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore..” (Luca 11:4); “rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” (Matt. 6:12); Gesù per perdono intende il perdono dell’offeso nei confronti del suo debitore e non nei confronti di chi non sia un suo debitore riguardo a un offesa, a un peccato commesso.
Giov. 20:21-23 (versione cattolica C.E.I.): “…Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete (perdonerete) i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete (perdonerete), resteranno non rimessi>”.
Ma cosa vogliono dire questi versetti? Giov. 20:21-23: a chi ha creduto, e accettato Gesù, il credente che lo ha evangelizzato ha il diritto di dichiarargli che ha ricevuto il perdono, a chi, invece, rifiuta il dono, che proviene dal sacrificio di Gesù, il credente evangelizzatore può dirgli che i suoi peccati sono ancora ritenuti.
Gesù diede a tutti i suoi discepoli il privilegio di annunziare in quale modo, secondo il piano di Dio, si può ricevere il perdono. Si veda bene in Luca 24:47: “e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme”; i discepoli dovevano predicare il ravvedimento e battezzare gli individui che avrebbero creduto, i quali avrebbero ricevuto, per mezzo della fede, il perdono dei peccati da Dio.
Ecco quanto viene detto anche in Giov 20:23; Marco 16:15-16; Matt. 28:19-20. Che la frase del vangelo di Giovanni “a chi rimetterete…” sia corrispondente alla volontà di Dio di conferire alla comunità dei credenti la missione della predicazione del battesimo, per la remissione dei peccati, appare dai passi biblici degli altri tre vangeli che, dichiarando il mandato che Gesù diede ai discepoli, dopo essere risorto e prima della sua ascensione al cielo, sia pure con diverse espressioni, concordano (tutte e quattro i vangeli) nel fare riferimento al battesimo e agli elementi che lo costituiscono (tra cui il più importante e necessario: la fede). In tale modo si capisce bene come anche le parole del vangelo di Giovanni si riferiscano precisamente al battesimo cristiano.
Leggere con attenzione i passi riguardanti la predicazione del battesimo nei quattro vangeli: Giov. 20:21-23; Matt. 28:18-20; Marco 16:15-16; Luca 24:47-49.
In Giov. 20:23 Gesù appare non solo agli apostoli, ma anche agli altri discepoli e comanda loro di andare a predicare e battezzare (leggere: Luca 24:33-49).
Lo stesso concetto riappare nel discorso di Paolo ad Antiochia di Pisidia: Atti 13:38-39 “Vi sia dunque noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunziato il perdono dei peccati; e, per mezzo di lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose…”, e Pietro in Atti 2:38 dice: “…Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo”.
Dunque, ancora una volta, si fa riferimento alla predicazione che suscita fede con il conseguente battesimo e la remissione dei peccati; in nessun passo si parla di un altro ministero dato alla comunità dei credenti (o, come dicono i teologi cattolici, ai sacerdoti), come il fantomatico potere cattolico di assolvere i peccati post-battesimali per mezzo di sacerdoti (Atti 10:42-43).
Il vero messaggio biblico riguardo ai peccati dopo il battesimo è: reciproca confessione dei peccati, riconciliazione con l’offensore, preghiere, eliminazione parziale o totale dei rapporti fraterni (nel caso che il colpevole si ostini a non pentirsi e a continuare nel procurare del male) per indurre il colpevole al pentimento, così da avere poi la riammissione completa nella comunità, nella chiesa locale, o semplicemente, la riconciliazione con il fratello offeso.
Gli scrittori ispirati dei quattro vangeli hanno trascritto, in modi e tempi diversi (perché Gesù in alcuni casi parlò di ciò in momenti e modi diversi), la promulgazione dell’unico e preciso mandato di Gesù dato ai suoi discepoli dalla sua resurrezione alla sua ascensione al cielo: “..Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato” Marco 16:15-16.
Questo fu quello che Gesù ordinò ai suoi discepoli, nelle sue apparizioni, dopo essere risorto e prima di ascendere al cielo. Solo Dio può perdonare i peccati: Marco 2:5-11.
Gli scribi, che conoscevano (v. 7) bene che solo Dio può perdonare i peccati e che è l’unico che può parlare così ad un uomo: v. 5 “…Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”, pensarono che Gesù bestemmiasse, ma non avevano capito che, secondo le Sacre Scritture, Colui che parlava era proprio Dio: v. 10 “Ma, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati”. Leggere anche 1 Giov. 2:1; Giov. 1:1.
Bisogna confessare i peccati a Dio (e ove sia necessario anche al fratello offeso) e non al sacerdote cattolico: Salmo 32:5 “Davanti a te ho ammesso il mio peccato, non ho taciuto la mia iniquità. Ho detto: <Confesserò le mie trasgressioni al Signore>, e tu hai perdonato l’iniquità del mio peccato”. 1 Timoteo 5:20: “Quelli che peccano riprendili in presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore”. Paolo di fronte al problema del peccato non parla di un’assoluzione, ma di un’ammonizione che in questo caso si presenta in forma pubblica per creare timore e rispetto verso la volontà di Dio negli altri, oltre che in quelli che peccavano.
In Luca 24:45-49: “Allora aprì loro la mente per capire le Scritture e disse loro: <Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste cose. Ed ecco io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi rimanete in questa città, finche siate rivestiti di potenza dall’alto>”.
L’evangelista Luca parla di questo unico mandato dato da Gesù dalla sua resurrezione alla sua ascensione, come del resto fa Giovanni.
In Marco 16:15-16 è scritto: “E disse loro:<Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato>”.
L’evangelista Marco parla anch’egli solo di questo unico mandato dato da Gesù dalla sua resurrezione alla sua ascensione, come del resto, ripeto, fa Giovanni nel suo vangelo.
In Matt. 28:18-20 è scritto: “E Gesù, avvicinatosi, parlò loro, dicendo: <Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente>”.
Come si vede anche Matteo parla di un unico mandato dato da Gesù dalla sua resurrezione alla sua ascensione, come fa pure, con termini diversi, lo scrittore Giovanni.
Luca nel c. 24, versi 33-49 racconta la stessa apparizione di Gesù, di Giov. 20:19-23. Luca 24:33-49: “E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano: <Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone>. Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane (tra quanto è detto al verso 35 e il verso 36 di Luca c. 24 Tommaso apostolo prima con i discepoli -v. 33-, probabilmente, si allontanò -Giov. 20:24-25- dal luogo dove erano riuniti insieme, ed è per questo che in Giov. 20:24-25 è detto che Tommaso non era con gli altri quando apparve Gesù per la prima volta in mezzo agli apostoli e i discepoli riuniti insieme). Ora, mentre essi parlavano di queste cose, Gesù stesso comparve in mezzo a loro, e disse: <Pace a voi!>. Ma essi, sconvolti e atterriti, pensavano di vedere un fantasma…<…Guardate le mie mani e i miei piedi, perché sono proprio io; toccatemi e guardate; perché un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho>. E, detto questo, mostrò loro le mani e i piedi…<Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste cose. Ed ecco io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi, rimanete in questa città, finché siate rivestiti di potenza dall’alto>” (Il ‘poi’ del v. 50 chiaramente si riferisce ad un evento posteriore).
Notare come Giovanni non voglia dire altro che le stesse cose scritte da Luca in modo diverso però, ma con lo stesso significato (probabilmente quello stesso giorno Gesù si espresse, riguardo alla predicazione, in entrambi i modi rivelati da Giovanni e da Luca).
Giov. 20:19-23: “La sera di quello stesso giorno, che era il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, Gesù venne e si presentò in mezzo a loro e disse: <Pace a voi!>. E, detto questo, mostrò loro le mani ed il costato. I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono. Allora Gesù disse loro di nuovo: <Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch’io mando voi>. Detto questo soffiò su di loro e disse: <Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete (o rimetterete) i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti>”.
La facoltà di ‘legare’ e ‘sciogliere’ di Matt. 18:18 (non quello di Matt. 16:19-20)e di ‘rimettere’ o ‘ritenere’ non è stata data solo agli apostoli, ma a tutti i discepoli di Cristo e non può affatto, per ovvi motivi, trattarsi del sacramento della penitenza cattolico.
Giacomo dice: “Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti” Giacomo 5:16.
In Matt. 18:15-17,21-22; Luca 17:3-4; e via dicendo, Gesù dice sempre questo; le Scritture sono piene di parole del Signore a questo riguardo. Nessun mediatore (sacerdote cattolico)umano fra l’offensore e l’offeso, e nessun sacramento di penitenza; questa è un’iniqua invenzione umana. Ma cosa vogliono dire allora i versetti 22-23 del capitolo 20 di Giovanni?
Per smentire le varie obbiezioni che potrebbero essere prese da parte cattolica citerò dei passi biblici: Atti 8:21-24: “<Tu, in questo, non hai parte né sorta alcuna; perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Ravvediti dunque di questa tua malvagità; e prega il Signore affinché, se è possibile, ti perdoni il pensiero del tuo cuore. Vedo infatti che tu sei pieno d’amarezza e prigioniero di iniquità>. Simone rispose: <Pregate voi il Signore per me affinché nulla di ciò che avete detto mi accada>”. Atti 19:18-20: “Molti di quelli che avevano creduto venivano a confessare e a dichiarare le cose che avevano fatte. Fra quanti avevano esercitato le arti magiche molti portarono i loro libri, e li bruciarono in presenza di tutti…Così la Parola del Signore cresceva e si affermava potentemente”. Matt. 6:14-15; Matt. 18:15-17,21-22; Luca 17:3-4; Giacomo 5:14-16; leggere anche Ebrei 7:11-28; Ebrei 8:1-4.
Nemmeno nell’A.T. si confessavano al sacerdote i propri peccati, ma solo a Dio, tanto più si potrebbe mai pensarlo di farlo adesso, ovvero ora che i credenti hanno il Sommo Sacerdote per eccellenza che è pronto ad intercedere sempre per loro in ogni momento, l’Eterno Signore Gesù Cristo. Egli, secondo le Sacre Scritture, è l’unico che intercede e che può davvero rimettere i peccati in quanto Dio e sacrificio di espiazione dall’odore soave davanti al Padre celeste in favore dei credenti suoi figliuoli. Per questo gli scribi pensavano che Gesù bestemmiasse quando disse, in svariate occasioni, a colui che in tale circostanza aveva avuto fede nella sua Persona, che i propri peccati gli erano rimessi. Essi (gli scribi) credevano (e in questo facevano bene)che solo Dio potesse rimettere i peccati agli uomini e, quindi, perlomeno, non vi era nella loro, seppure spudorata, tradizione giudaica l’iniqua dottrina cattolica della confessione e assoluzione per mezzo di un sacerdote. Essi non avevano, comunque, inteso che chi rimetteva i peccati in quelle circostanze, secondo le Scritture, era proprio Dio, venuto in carne sulla terra. Per ulteriori chiarimenti leggere: Matt. 9:1-8; Marco 2:5-12; Luca 5:20-26; Giov. 1:29-30.
Ma ritorniamo al c. 20:21-23 del vangelo di Giovanni: ai discepoli è affidato l’annuncio della remissione dei peccati, l’annuncio che i peccati possono essere ‘sciolti’ a chi accetta Cristo, ma saranno ritenuti a chi non lo accetterà: “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato” Marco 16:16. Pietro dice ai suoi uditori a Pentecoste: “…Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà” Atti 2:38-39.
Se una persona alla predicazione degli evangelizzatori, alle loro esortazioni, crede in Cristo e si battezza, questi potranno dirle: ‘stai in pace fratello perché a causa della tua fede i tuoi peccati ti sono stati rimessi, la tua fede ti ha salvato, vai in pace, come disse Gesù svariate volte’, e questo non perché i credenti abbiano una potestà di rimettere o non i peccati altrui commessi verso Dio e verso gli uomini, ma perché, secondo le Scritture: “chiunque crede in lui (Cristo), riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome” Atti 10:43.
È chiaro che, se alla predicazione degli evangelizzatori qualcuno non credesse a Cristo e all’opera sua e non si ravvedesse, in questa persona non vi sarebbe alcuna remissione dei peccati, perché non ha creduto al nome di chi li poteva rimettere attraverso l’opera del suo sangue versato sul legno della croce. Non può esserci alcun’altra interpretazione del passo di Giovanni, perché in tutti e tre i restanti vangeli è espressamente detto quale fu il mandato di Gesù risorto affidato agli apostoli e ai suoi discepoli. Gesù dice semplicemente in modo chiaro che si deve predicare per il ravvedimento, e chi crede dev’essere battezzato nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo per la remissione dei peccati.
Quello che dicono i teologi cattolici riguardo al sacramento della confessione con assoluzione, istituito nel 1215, molti secoli dopo l’epoca della Chiesa primitiva, si basa interamente solo sul versetto 23 del vangelo di Giovanni capitolo 20 e sul versetto 18 del capitolo 18 di Matteo riguardo al ‘legare’ e allo ‘sciogliere’.
Qui, si spera, di essere riusciti a far comprendere quanto questi teologi cattolici errano in tutto ciò. Se fosse vero quello che dice la Chiesa Cattolica Romana riguardo al versetto del vangelo di Giovanni: “a chi rimetterete (o perdonerete)…” ci sarebbe una grossa contraddizione biblica, innanzitutto perché gli altri tre vangeli raccontano in accordo di un unico mandato di Gesù, dato ai suoi discepoli dal momento della sua resurrezione fino alla sua ascensione al cielo, che sarebbe, appunto, quello della predicazione e del battesimo per la remissione dei peccati, mentre Giovanni avrebbe dovuto tralasciare, nel suo racconto di Gesù, dalla sua resurrezione fino alla sua ascensione, questo comando principale e necessario, magari per dimenticanza, e avrebbe dovuto trascrivere un nuovo mandato, così importante da aver dimenticato quello della predicazione, del ravvedimento e del battesimo, per trascrivere: ‘il mandato di Gesù di confessarsi al sacerdote col sacramento di penitenza per avere la remissione dei peccati’, remissione che, invece, negli altri tre vangeli, come del resto anche nel quarto, si ottiene solo accettando per fede Cristo nella propria vita. Inoltre, tre evangelisti (Marco 16:15-16; Luca 24:47; Matteo 28:19-20), e non uno come Giovanni, avrebbero dovuto dimenticare di trascrivere questo nuovo mandato, per i teologi cattolici tanto importante, e avrebbero, per motivi occulti, trascritto solo quello della predicazione e del battesimo per la remissione dei peccati, senza alcun accenno riguardante ‘il sacramento cattolico della confessione’.
Se si crede che questi quattro vangeli sono scritti ispirati, si dovrebbe oltremodo credere che lo Spirito Santo, nell’ispirare tali scrittori, gli abbia guidati in egual modo nel ricordare e nel trascrivere il mandato importantissimo di Gesù che Egli affidò ai suoi discepoli nel tempo che intercorse fra la sua resurrezione e la sua ascensione, e che fu unicamente quello della predicazione del Cristo, del ravvedimento, e del battesimo per la remissione dei peccati. Confrontare fra di loro i vari passi dei quattro vangeli: Giov. 20:23; Marco 16:15-16; Matt. 28:19-20; Luca 24:47.
Conclusione.
Proviamo ora a dire a parole nostre quello che il passo di Giovanni c. 20:21-23 dice: “Allora Gesù disse loro di nuovo: <Pace a voi! Come il Padre mio ha mandato me ad annunziare la salvezza tramite il mio nome e il ravvedimento per la remissione dei peccati, così io mando voi adesso a continuare l’opera mia e del Padre mio>. Detto questo soffiò su di loro e disse: <Ricevete lo Spirito Santo, Egli vi istruirà nelle Scritture e nella predicazione; a chi, attraverso la parola dell’evangelo e voi, avrà creduto al mio nome e sarà stato battezzato gli saranno rimessi i peccati, ma a chi non crederà a questo evangelo e a voi e, quindi, al mio nome, non gli saranno rimessi ma resteranno ritenuti>”.
Oppure: “A chi alla vostra predicazione avrà creduto al mio nome, gli saranno rimessi i peccati, ma a chi non avrà creduto non saranno rimessi (resteranno ritenuti)”; Atti 13:38-39; Atti 26:18.
L’evangelizzatore può dichiarare che una persona è stata liberata dai propri peccati se questa ha creduto in Gesù, il Signore e Salvatore, oppure dichiarare che rimane in stato di peccato se essa rifiuta di credere. Gesù con questo mandato, che Egli affidò a tutti i suoi discepoli, si riferiva unicamente all’evangelizzazione del suo nome e dell’opera sua.
Rimettere i peccati non è competenza di nessun uomo, essi possono essere perdonati da Dio stesso e solamente da Lui: “Chi può perdonare i peccati se non uno solo, cioè Dio?” Marco 2:7.
Lui solo, secondo le Sacre Scritture, ha tale Autorità e Potenza. Durante una predicazione, per mezzo della fede in Cristo e nella sua opera di redenzione, delle persone ricevono la certezza che Dio le ha perdonate. È evidente che nessun uomo può rimettere i peccati a se stesso o ad altri, ovvero assolvere se stesso o gli altri anche se nel nome del Signore, perché, oltre a non avere tale autorità e potere, non può conoscere in quel medesimo momento il volere di Dio riguardo all’individuo colpevole, del quale non può neanche individuare la certezza del pentimento o meno.
La Sacra Bibbia dice chiaramente: “e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti…” Luca 24:47. Colossesi 2:13: “Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati”.
Un uomo di Dio può perdonare (mai assolvere) soltanto colui che si è reso colpevole di qualcosa nei confronti della sua persona, come viene espresso nell’insegnamento di Gesù nella preghiera del Padre Nostro: “rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” Matt. 6:12; “e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore…” Luca 11:4; “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli vi perdoni le vostre colpe” Marco 11:25.
Se qualcuno si è reso colpevole di qualcosa verso un credente, questi deve perdonarlo, anche se l’altro continuasse, ripetutamente, a essere recidivo in cattive azioni nei suoi confronti, anche fino a “settanta volte sette” (all’infinito), ovvero il credente deve perdonare sempre: Matt. 18:21-35.
(Questo, secondo le Sacre Scritture, non significa assolutamente che un credente non possa in caso di giusta necessità tenersi lontano da un individuo che continuamente agisce verso la sua persona in modo spregevole, ma solo che egli non deve mai avere in cuor suo, né alcun tipo di odio, né di rancore, ma i suoi sentimenti verso tale individuo devono sempre essere impregnati di pietà, di compassione, di amore e di speranza).
Il passo “a chi rimetterete…” non ha nulla a che vedere col perdono in generale che ciascun credente riceve solo da Dio nelle varie occasioni quotidiane e della vita, mediante la fede in Gesù. Qui si parla della remissione dei peccati, passati, presenti e ‘futuri’ attraverso l’accettazione della Persona di Cristo Gesù alla predicazione degli evangelizzatori, con la conseguente attestazione pubblica del battesimo in acqua. Soprattutto tale passo non ha in alcun modo niente a che vedere con la confessione e con l’assoluzione cattolica.
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