Riflessioni – Chiesa Cattolica Romana (Parte VIII) – Il purgatorio…

Riflessioni – Chiesa Cattolica Romana (Parte VIII) – Il purgatorio…

Ad oggi non mi ritengo un credente (non ancora almeno…), tuttavia si è ritenuto necessario, per amor di ‘verità’, denunciare come sia stato, nei secoli, falsato, da parte della Chiesa Cattolica Romana, il messaggio evangelico contenuto nelle Sacre Scritture.

*Articolo tratto dal contenuto di miei vecchi scritti (ovvero di oltre vent’anni fa) qui, semplicemente, ricopiato nella parte di interesse.

N.B. I passi biblici riportati nel seguente studio (nel caso non sia indicato diversamente) sono presi dalla traduzione biblica Nuova Riveduta (società biblica di Ginevra). La parola con carattere maiuscoletto: ‘SIGNORE’, nella traduzione biblica Nuova Riveduta, viene usata per indicare il termine ebraico: ‘Yahweh’ (nome di Dio); la parola con carattere normale: ‘Signore’ è, invece, la traduzione letterale del termine ebraico: ‘Adhonai’. Laddove ricorre ‘Adhonai Yahweh’ è riportato (sempre nella versione Nuova Riveduta) con l’espressione ‘il Signore, DIO’ (per evitare la ripetizione).

Le Sacre Scritture escludono, in modo assoluto, una via intermedia tra paradiso e inferno, ovvero il purgatorio.

Matt 25:46: “Questi se ne andranno a punizione eterna; ma i giusti a vita eterna”; Giov 5.29: “quelli che hanno operato bene, in resurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in resurrezione di giudizio”; Daniele 12:2: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia”.

Luca 16:19-31; questo passo parla del destino che ebbero, dopo la loro morte, un uomo ricco e un uomo povero di nome Lazzaro. Sempre nel passo sono descritti il soggiorno dei morti (degli ingiusti) e il seno di Abraamo (o soggiorno dei giusti), e non vi è nessuna traccia del purgatorio. Secondo le Sacre Scritture, il seno di Abraamo è stato annullato con la morte, resurrezione e ascensione del Cristo. Alla sua morte Gesù discese nello Sceol, il quale comprendeva tutti e due i soggiorni (leggere anche 1 Samuele 28:11-15 dove Samuele il giusto, nella visione, viene presentato come uno che “esce di sotto terra”; “che sale”; e ancora “Chi debbo farti salire?”; “Fammi salire Samuele”; “Perché mi hai disturbato, facendomi salire?”). Dopo tre giorni di soggiorno nel seno di Abraamo resuscitò e con la sua ascensione (quaranta giorni dopo che fu resuscitato)inaugurò la dipartita in cielo delle anime sante di ogni epoca (Efesini 4:8-10).

Oggi le anime dei credenti, secondo le Scritture, salgono direttamente in cielo, mentre le anime degli increduli scendono ancora nello Sceol, nel quale rimane solo il soggiorno degli ingiusti. All’ascensione di Gesù, le anime dei credenti defunti furono condotte in cielo.

In pratica, lo Sceol (o Ades in greco) era il luogo che comprendeva, separatamente, la dimora dei giusti e quella degli ingiusti. Oggi lo Sceol o Ades designa solo il luogo degli increduli, perché residenza solo di essi. C’è da aggiungere, inoltre, che anche se tutti e due i soggiorni erano nello stesso luogo (Sceol sotto terra), fra di essi vi era una barriera invalicabile, “una grande voragine”: Luca 16:26. La Chiesa Cattolica asserisce che la stragrande maggioranza delle anime credenti, avendo, comunque, peccato in vita, devono passare dal purgatorio per purificarsi e rendersi degne di presentarsi davanti a Dio.

Si legge in Luca 23:43 che uno dei due malfattori appesi alla croce vicino a Gesù, pentendosi del suo passato peccaminoso e credendo in Gesù come il Salvatore, alla sua morte si sarebbe subito trovato direttamente in paradiso, senza dover passare da un purgatorio. Questo fatto sarebbe assai strano se considerassimo la concezione cattolica riguardo al purgatorio, perché a questi, pur avendo alle spalle certamente molti peccati e non essendo nemmeno ‘battezzato’, Gesù gli disse: “..Io ti dico in verità che oggi tu sarai con me in paradiso”.

Gesù con tali parole voleva dire che egli sarebbe sceso con Lui nel soggiorno dei giusti o seno di Abraamo (figurativamente ‘sotto terra’, ovvero nello Sceol o Ades) e da li sarebbe salito in cielo, all’ascensione di Cristo. Gesù stesso dice che chi avrà avuto fermezza di fede in Lui e avrà agito di conseguenza, passerà da morte a vita (e non da morte al supplizio del fuoco del purgatorio); non vi è alcun passaggio intermedio di purificazione. Credere nella dottrina del purgatorio sarebbe, inoltre, un insulto all’efficacia completa e potente del sangue versato di Cristo che “purifica da ogni peccato”, 1 Giov 1:7.

Il purgatorio è una pura invenzione dell’antica gerarchia romana, non essendovi di esso neanche l’idea negli scritti sacri. Tale dottrina è in contraddizione con le parole di Gesù, il quale asserisce che i suoi fedeli servitori vanno direttamente in paradiso quando muoiono.

Del resto, Iddio sarebbe ingiusto abbreviando la pena solo per coloro che hanno lasciato denaro per far dire messe in suffragio per la loro anima, una volta defunti (e molti cattolici credendosi furbi lo fanno), o comunque per coloro i quali hanno ancora in vita, sulla terra, parenti o amici che pregano per loro; ma per chi non ha nessuno sulla terra che preghi in proprio favore, le cose come starebbero? Molte anime di credenti si vedrebbero stare decenni in più nel purgatorio, perché nessuno prega (aiutandoli, pian piano, a riscattarsi dal luogo di ‘purificazione’), in terra, per loro. Leggere il Salmo 49:6-9: “..ma nessun uomo può riscattare il fratello, né pagare a Dio il prezzo del suo riscatto. Il riscatto dell’anima sua è troppo alto, e il denaro sarà sempre insufficiente, perché essa viva in eterno ed eviti di vedere la tomba”.

Iddio, secondo le Sacre Scritture, è un Dio sapiente e non potrebbe agire in questo modo (il denaro e il materialismo avrebbero potere anche sull’aldilà?), difatti si verrebbero a creare delle ingiustizie insanabili.

La dottrina del purgatorio solo al Concilio di Firenze del 1439 fu considerata come dogma di fede, anche se istituita da Gregorio Magno verso l’anno 593.

Il sangue versato di Gesù, secondo le Scritture, è l’unica purificazione dei peccati: 1 Giov 1:7-9; 1 Giov 2:1-2; Romani 8:1-2; Giov 5:24: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”.

L’unico a rendere degli uomini giusti davanti a Dio è il Cristo, attraverso il suo sangue prezioso. In alcun modo si dovrebbe pensare che qualcuno possa ‘guadagnare’ la vita eterna espiando da sé i propri peccati nel fuoco del purgatorio, per anni, decenni o secoli; così si renderebbe vana l’opera di Dio in Cristo nel suo sangue purificatore versato sulla croce.

Secondo le Sacre Scritture, il sacrificio del Cristo è stato ed è così potente che, pur essendo morto duemila anni fa circa, non solo è efficace ancora oggi, ma la sua opera redentrice ha reso giusti per fede anche coloro che sono vissuti prima della sua morte, nel senso che Iddio in vista del suo disegno di redenzione in Cristo ha giustificato per fede i credenti dell’A.T. che sono vissuti per fede e sono stati salvati a motivo di questa e non per le opere.

Si immagini un credente, il quale per tutta la sua vita abbia vissuto una fede vera e che abbia letto o sentito le parole di Gesù riguardo al fatto che il suo sangue versato sulla croce ha espiato le proprie colpe, e che se si ha fede in Lui si passa dalla morte alla vita e non si viene in ‘giudizio’, dico: immaginate quest’uomo al quale, una volta morto, finendo in purgatorio (la sua anima), gli venisse detto che il sangue di Gesù e la sua opera espiatrice non bastano, in quanto egli deve espiare le sue colpe una ad una nel fuoco pungente del purgatorio e magari per interi decenni (secondo alcune tesi cattoliche, si sostiene che per alcuni individui esso possa durare secoli).

Un bel giorno, dopo decenni di fuoco terrificante, egli viene condotto davanti al Signore Gesù, il Redentore, per essere salvato ‘per grazia’ (infatti, come i testi sacri dichiarano chiaramente: è per grazia che si viene salvati)e ricevere sempre per grazia la vita eterna. Cosa gli direbbe quest’anima al Signore Gesù? Non penserebbe forse che, in qualche modo, non si è trattato di grazia visto che egli ha dovuto espiare da solo i propri peccati nel fatidico purgatorio? (leggere Luca 23:43). Che fine farebbe poi la comunione instaurata tra il credente e il Signore nel momento in cui l’anima si vedesse capitolare nell’incendio pungente del purgatorio?

Tale comunione, in modo contraddittorio, anziché evolversi dopo la morte sarebbe, invece, interrotta. Che fine farebbero le parole bellissime e di conforto di Gesù, riguardo alla sua potente opera espiatrice e alla ‘vita’ subito dopo la morte?

È bene sapere che, secondo le Scritture, quando Gesù usa il termine ‘vita’ dopo la morte non si riferisce all’essere ancora fisicamente esistente bensì del viaggio dell’anima immortale in cielo, con il Signore. In altri termine, quando Gesù usa il citato termine ‘vita’ vuol dire che chi avrà avuto fede in Lui non verrà in giudizio, ovvero non incorrerà nella condanna, ma subito dopo la morte passerà alla vita eterna, alla contemplazione della gloria divina.

È del tutto fuori luogo metterci in mezzo il purgatorio; tale processo non solo renderebbe bugiarde le parole di Gesù, ma anche impotente la sua opera espiatrice e di redenzione.

Ricordo di aver letto, riguardo al purgatorio, su di un libro ‘cattolicissimo’ di un’anima che ‘si sarebbe’ messa in contatto con una persona sulla terra e le avrebbe rivelato di essere finita, da tempo, in purgatorio semplicemente perché una volta (quando era ancora in vita sulla terra)non era voluta andare alla messa della domenica e, a fronte di ciò, invitava il ricevente del messaggio ad esortare i suoi ‘fratelli’ nella fede a non mancare, come essa, a tale ordinamento cattolico, per non incorrere nella stessa pena. Lascio a voi ogni commento.

I teologi cattolici dicono che il purgatorio è necessario perché l’uomo, essendo peccatore per natura, in qualche modo deve santificarsi e purificarsi ivi espiando le proprie colpe, perché altrimenti non potrebbe presentarsi davanti alla santità di Cristo Gesù e di Dio Padre.

Proprio il Gesù che, secondo le Sacre Scritture, amava stare con i ‘peccatori’ e gli emarginati, disse: “chiunque avrà avuto fede in me avrà la vita eterna e io lo giustificherò davanti al Padre mio”, ovvero Egli sarebbe stato l’Avvocato che avrebbe giustificato e santificato i suoi fedeli, tanto da essere accettati dinanzi al cospetto del Padre celeste.

Secondo le Scritture tutti, qualsiasi cosa possano operare nella fede e nel bene, finché si è in questo ‘corpo mortale’, rimangono sempre dei peccatori dinanzi alla Santità Eccelsa di Dio.

Uno potrebbe anche credere di essere arrivato a uno stadio di fede e di amore tanto da non peccare più, ma la sua conoscenza e il suo discernimento delle cose essendosi elevati grazie alla fede coltivata, alla grazia di Dio e alla preghiera, lo metterebbero, comunque, in una posizione di responsabilità sempre maggiore e, anche se non commettesse più i peccati di una volta, le piccole mancanze operate nel presente avrebbero valore, in un certo senso, quanto quelle di prima.

Ricordiamo, ad esempio, come per un ‘nulla’ Dio non permise a Mosè di entrare nella terra promessa; qualsiasi giudeo che vi entrò di simili mancanze, certamente, ne avrà commesse di maggiori, ma Mosè aveva contemplato la gloria di Dio, aveva parlato con Lui, aveva ricevuto direttamente le leggi da Lui, aveva una tale conoscenza della volontà di Dio che tale ‘minuscola’ mancanza assunse davanti a Dio un peso tale da far meritare a Mosè la privazione del passaggio nella terra promessa (Mosè commise un peccato di impazienza: Numeri 20:8-13; c. 27:12-14; Deut. 3:23-28; c. 32:48-52).

La questione è questa: tutti i veri credenti rimangono pur sempre dei peccatori, per cui o tutti loro, alla loro morte, vanno in purgatorio per purificarsi, o tutti loro, servi di Dio, vanno direttamente in cielo (come del resto, secondo le Scritture, accade) e, unicamente, per la potenza espiatrice del sangue di Cristo Gesù Redentore. Il purgatorio non lascia speranza al credente, il quale restando, in ogni caso, un peccatore vivrà sempre con la fobia che, dopo la sua morte, l’anima sua verrà purgata per un tempo indeterminabile nello spaventoso fuoco del purgatorio. Che prospettiva avrebbero i credenti se fosse così?

Paolo parla della morte per i credenti come di una gioia, ma ciò sarebbe difficile a dirsi dovendo credere al purgatorio cattolico. Paolo disse ai corinzi che lui e i suoi collaboratori erano pieni di fiducia e preferivano “partire dal corpo e abitare con il Signore”; 2 Corinzi 5:8: “ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore”.

Si rifletti: come avrebbero potuto, quegli uomini, desiderare così tanto la loro dipartita se avessero creduto in un purgatorio nel quale andare ad espiare, per decenni o secoli, mediante atroci sofferenze, dei loro debiti insoluti? Questo sta a dimostrare che essi non credevano e non conoscevano nulla riguardo ad un purgatorio.

Ora, molti cattolici, non avendo (per ignoranza) piena coscienza del significato della dottrina cattolica in questione non vengono colti da tal timore, ma solo perché non sanno, perfettamente, quanto tale iniqua dottrina afferma. Per la Chiesa Cattolica il fuoco del purgatorio è simile per intensità al fuoco dell’inferno, solo che quest’ultimo (l’inferno) è eterno mentre il purgatorio non lo sarebbe.

Sempre per l’iniqua Chiesa, la stragrande maggioranza dei credenti va nel purgatorio (perché seconda essa, quasi chiunque ha sempre qualcosa da dover espiare), infatti lo si può notare anche dal fatto che ad ogni defunto venga celebrata la messa come suffragio.

Anche per gli anni successivi alla morte dell’individuo vengono chieste dalla Chiesa Romana preghiere per i defunti (dietro offerte); sfugge al cattolico in generale che ciò implica il dover credere che il proprio caro defunto sia in tale luogo e abbia bisogno di sussistenza da parte dei vivi, in forma di messe e di preghiere, indipendentemente da chi sia o da che cosa abbia fatto; cioè, costui (il defunto) potrebbe (la sua anima) essere andato a finire nell’inferno (meglio chiamarlo soggiorno degli ingiusti) o essere già in paradiso, ma nessuno lo può sapere, eppure si continuano a fare preghiere per loro.

(È utile dire che, secondo le Scritture, gli ‘increduli’, a tutt’oggi, non vanno ancora nell’inferno, bensì, come detto prima, nell’Ades, il quale è, similmente, un luogo di tormenti. Nell’inferno, o stagno di fuoco, l’anima dell’incredulo vi andrà solo dopo il giudizio finale: Ap. 20:10-15. L’anima dall’inferno non potrà più uscire, mentre è chiaro che per essere partecipe alla resurrezione del corpo immortale ,al giudizio finale degli empi, essa deve essere stata messa in condizione di uscire dalla sua dimora per presentarsi in giudizio davanti a Dio: v. 12. Questo avviene perché la sua residenza fino ad allora è stata e sarà l’Ades, il quale non è una destinazione eterna come l’inferno, anche se chi vi viene destinato è eternamente condannato e il suo definitivo e futuro luogo sarà l’inferno o stagno di fuoco).

È inutile dire che ciò crea una smisurata confusione, difatti come può l’uomo sapere chi si trova nel purgatorio e chi no? La dottrina cattolica del purgatorio a fronte di quanto, invece, affermato dalle Sacre Scritture, è iniqua; essa, difatti, depotenzia l’opera salvifica del sangue versato di Gesù e anche la sua efficacissima opera santificatrice e purificatrice.

Nel tardo Medioevo, dietro una spinta di forti speculazioni di denaro, si fece un abbondante uso (soprattutto sotto il Pontificato di Leone X) di queste preghiere o suffragi (indulgenze) per morti. L’invenzione del purgatorio e delle indulgenze per i morti (e non solo), in quelle epoche, ha portato nella Chiesa Romana ingenti somme di denaro e di proprietà, ma anche oggi questo mercato non è per niente debole.

Se la dottrina del purgatorio fosse stata effettivamente di origine biblica, Gesù e gli apostoli non avrebbero cessato di attirare l’attenzione sulla terribile condizione delle anime purganti, e nel loro amore fraterno avrebbero continuamente esortato ad offrire preghiere per i defunti.

Ora di tutto questo nella Bibbia non c’è nemmeno l’ombra. La pratica della Chiesa Cattolica non è biblica. Ai credenti cattolici durante la loro vita vengono rimessi i loro peccati (con la confessione al prete e l’assoluzione da parte di questi); dopo la morte il defunto munito di tutti i sacramenti, compreso quello dell’estrema unzione, finisce, paradossalmente, nel purgatorio per essere purgato dai peccati che gli sono stati rimessi (assolti dal prete) durante tutta la propria vita.

Nella Bibbia non vi è alcuna distinzione tra perdono della colpa e condono della pena. Quando Dio perdona il peccato, perdona tutto, anche tutte le sue conseguenze; permane solo l’obbligo di riparare il danno a terzi.

Questo è confermato dal fatto che nelle Scritture non vi è alcun accenno al purgatorio.

Questa iniqua dottrina proviene, unicamente, dal paganesimo. Dio che comanda agli uomini di perdonare sempre e senza rancore (Matt. 18:21-22; Efesini 4:32; Luca 6:36), non può, Egli stesso, agire diversamente e, nonostante il perdono concesso del peccato, esigerne la riparazione nel purgatorio per decenni o secoli. Sono gli uomini del mondo che fanno così (Matt 5:25), non l’Iddio misericordioso delle Sacre Scritture.

Per mezzo dei profeti, Egli fa pervenire parole consolanti: Isaia 43:25 “Io, io sono colui che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni e non mi ricorderò più dei tuoi peccati”; Geremia 31:34: “…Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò dei loro peccati”.

L’amore misericordioso di Dio, il quale perdona senza rancore i suoi figlioli sinceramente ravveduti (e senza punizione nel purgatorio cattolico), appare magnificamente nella parabola del figliol prodigo. Tornato a casa, costui pronto a farsi schiavo, si sente dire dal padre: Luca 15:11-32 (scrivo solo i versi 22,23,24) “…<Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato>. E si misero a fare gran festa”. Questo figlio aveva sperperato i beni del padre, vivendo dissolutamente e andando con le prostitute (v.13, v. 30), ma bastò il pentimento del giovane, il quale era disposto a farsi schiavo del padre, e il suo ritorno a casa, perché il padre lo perdonasse a pieno senza punirlo per i danni e le preoccupazioni causate. Tanto più farà Dio con i credenti, i quali, veramente pentiti, saranno disposti, in ogni istante, a chiedere perdono a Lui, per ogni mancanza o peccato operato (vedere anche la storia del ladrone: Luca 23:43). Per tale motivo i cristiani del tempo apostolico non temevano la morte, perché sapevano che essa era solo un passaggio obbligato per entrare in una più intima comunione con il Cristo, e per mezzo suo, con il Padre.

Paolo dice: Filippesi 1:21-24 “Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno…Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo e più necessario per voi”.

Il vero cristiano non teme il purgatorio, perché esso non esiste e perché colui che lo purifica è il Cristo; il sangue di Gesù continua nella sua vita a purificarlo da ogni peccato: 1 Giov. 1:7-9. Egli muore sereno perché sa di andare al riposo e non alla sofferenza del purgatorio.

L’angelo al veggente Giovanni disse: Ap. 14:13 “E udii una voce dal cielo che diceva: <Scrivi: beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore. Si, dice lo Spirito, essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono>”. Il credente rigenerato sa di non essere condannato, bensì di dover passare dalla morte alla vita. Egli ripone la sua fiducia non in presunte e personali opere meritorie ed espiatrici, bensì nella misericordiosa grazia e volontà del Signore.

Romani 8:33-39: “Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica. Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor di più, è resuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada…Infatti sono persuaso che né morte (né quindi il purgatorio), né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Paolo afferma che niente, né la morte, né principati, né angeli, né potenze, ecc., potranno separare il credente da Dio, quindi nemmeno un fantomatico purgatorio potrà separare i figli di Dio dal suo amore immenso. In tutta la Sacra Scrittura non vi è alcun accenno a un sacrificio per i morti (le messe cattoliche di suffragio), a delle preghiere in loro favore, né tanto meno ad una purificazione dopo la morte.

Vediamo la storia del ricco e di Lazzaro: Luca 16:19-31. Lazzaro era semplicemente un povero, un mendicante, non viene detto che era un credente (anche se sicuramente lo era), né che se lo era lo fosse in modo fervente, eppure dopo la sua morte si ritrova nel seno di Abraamo (paradiso). Ciò contrasta con la tesi del purgatorio, perché, secondo essa, egli avrebbe dovuto almeno passare del tempo nel luogo di purificazione, anche perché egli non è descritto come un invocatore particolare di Dio (tale assenza, probabilmente, è voluta da Gesù), ma viene solo descritta la sua povertà, la sua malattia. Egli avrebbe, certamente, avuto, come si suol dire in ambito cattolico, qualche peccato da espiare. Niente di tutto ciò; dopo la sua morte egli si ritrova nel paradiso. Naturalmente sarà stata la sua fede, mista alla sua umiltà e povertà di spirito, a renderlo gradito agli occhi del Signore, mosso a pietà anche per l’umiltà con la quale Lazzaro conviveva con le sue malattie.

Nella Bibbia, e più precisamente nell’A.T., si parla solo del soggiorno degli ingiusti e del soggiorno dei giusti, non si menziona mai un terzo soggiorno (purgatorio cattolico), anzi lo si esclude con forza. Nel N.T. si parla del soggiorno degli ingiusti e del cielo, dimora dei giusti, mai, in assoluto, si presenta la possibilità di una terza dimora. Con il racconto del ricco e di Lazzaro, Gesù insegna che sin dalla morte l’impenitente entra in un luogo di tormenti, nel pieno possesso delle sue facoltà e della sua memoria, separato, mediante un abisso invalicabile, dal luogo della felicità, senza possibilità di soccorso. Ciò evidenzia anche che l’anima, la quale venga graziata da Dio, dopo la separazione dal corpo, entra subito nel luogo di felicità e gioia, senza attraversare prima un lunghissimo tempo in un terzo soggiorno, fatto di fuoco e di dolori (il purgatorio).

Il purgatorio, non mi stancherò mai di dirlo, è un’invenzione pagana, la quale trova insediamento in ambiti cristiania seguito di un processo di gnosticismo e di sincretismo di cui ho argomentato nell’articolo: ‘Riflessioni – Chiesa Cattolica Romana (Parte I) – Tradizione della Chiesa Cattolica o Sacra Scrittura?’.

In Giov. 11:25-26 Gesù dice: “…Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai…”; Giov. 10:27-28: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano”; Giov. 8:51: “In verità, in verità vi dico che se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”.

Vi può davvero sembrare logico e possibile che a un credente, il quale, nella sua vita, abbia vissuto con fede, tuttavia nell’imperfezione che la carne concerne, Gesù possa dimostrare il contrario di quanto da Lui stesso affermato spedendo l’anima del credente in un purgatorio a soffrire pene e dolori terribili? Nell’aldilà, si precisa, secondo le Sacre Scritture, riguardo agli increduli non c’è alcuna ulteriore possibilità di salvezza. È scritto, infatti, che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio (Ebrei 9:27), per cui i peccatori impenitenti, una volta morti, devono aspettare il giudizio che avrà luogo nel giorno stabilito e nel quale saranno condannati allo stagno di fuoco e zolfo (inferno): Ap. 20:11-15.

Questo giudizio lo dovranno aspettare nell’Ades (o Sceol) in cui oggi rimane solo il soggiorno degli ingiusti, il quale è un luogo di tormento, dove ‘arde il fuoco’, e dal quale è impossibile essere liberati (Luca 16:19-31) se non nel giorno del giudizio, nel quale verranno tolti di là per essere spediti nell’inferno.

Gesù disse: Marco 16:16 “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato”, e Giovanni Battista affermò: Giov. 3:36 “Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”. Dunque per gli increduli, dal momento in cui muoiono, cessa, secondo le Scritture, ogni possibilità, o opportunità, di ricevere la salvezza. L’espiazione di ogni individuo nel purgatorio, inoltre, secondo i teologi cattolici, durerebbe secondo la gravità e il numero delle colpe individuali, avendo, dunque, una diversa durata individuale a seconda dei singoli casi.

Nella Catechesi cattolica al punto 1031 si legge: “La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa del castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze e di Trento. La tradizione della Chiesa, riferendosi a certi passi della Scrittura, parla di un fuoco purificatore: <Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro. Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro>”.

Prendiamo subito in esame questo passo della Scrittura che i teologi cattolici travisano: Matt. 12:31-32: “Perciò vi dico: ogni peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parli contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chiunque parli contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo mondo né in quello futuro”; Marco 3:28-29: “In verità vi dico: ai figli degli uomini saranno perdonati tutti i peccati e qualunque bestemmia avranno proferita; ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno”.

I teologi cattolici fanno del verso 32 del cap. 12 di Matteo una rivelazione riguardo all’esistenza del purgatorio: “non sarà perdonato né in questo mondo né in quello futuro”. Se vediamo anche il verso 29 del cap. 3 di Marco: “ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno” appare chiaro come il messaggio principale che Gesù vuole dare è che chi commette questo peccato non ha perdono in eterno ed è reo di un peccato eterno che lo priverà della salvezza. Con queste parole: “né in questo mondo né in quello futuro” è evidente che il Signore si riferisca ad un mondo futuro, un mondo avvenire (‘il Regno di Dio sulla terra…’; Luca 20:35; Ebrei 6:5).

Il purgatorio, secondo la concezione cattolica, invece, è un mondo, una dimensione già presente. In pratica, Gesù vuol dire che tale peccato non sarà perdonato, sia nel mondo presente, sia nel Regno o mondo avvenire. Cioè chi commette tale peccato, sia esso vivente in questo tempo o epoca, sia esso vivente al tempo del Regno di Dio sulla terra, e che sarà il mondo avvenire, non potrà mai essere perdonato.

Si può, certamente, affermare che, invece, del purgatorio, nel versetto 32 di Matteo capitolo 12, viene rivelato il Regno di Dio (il ‘mondo futuro’), nelle sacre Scritture, più volte rivelato. In primo luogo, per sfatare l’ideologia cattolica a riguardo, bisogna dire che se Gesù avesse voluto, nelle sue parole, rivelare un ipotetico purgatorio, certamente, non avrebbe usato i termini: “né in questo mondo né in quello futuro”, ovvero volendo Egli rivelare l’esistenza di un luogo di espiazioni, e dovendo questo luogo essere presente anche al tempo in cui Gesù proferiva tali parole, avrebbe, sicuramente, dovuto esprimersi diversamente visto che rivelava non un luogo futuro, un mondo avvenire nel tempo, ma sempre presente, solo però in una dimensione diversa. Il purgatorio, secondo i teologi cattolici, è un luogo di espiazioni nel quale non vi si può peccare in alcun modo, ma ci si purifica e si è destinati ad entrare un giorno nella gloria del paradiso di Dio.

Quindi, chiunque vi entri è destinato a salvarsi, ma se Gesù, nel passo di Matteo, parla del purgatorio è possibile che un’anima possa andare in purgatorio con un peccato del quale non può essere perdonata (la bestemmia contro lo Spirito Santo)? Ovvero come può essere possibile che essa (l’anima purgante) possa commetterlo in tale luogo visto che è una dimensione, una dimora, per l’espiazione? Se tale peccato non è perdonabile che senso avrebbe mandare un’anima in un ipotetico luogo di purificazione se questa è stata già, eternamente, condannata? Oppure come potrebbe un’anima peccare in tale luogo, visto che è destinata alla purificazione e alla salvezza, e addirittura peccare di tale peccato?

Sarebbe bastato a Gesù dire che tale peccato non sarebbe mai stato perdonato (come del resto fa in Marco 3.28-29), ma per dire: “né in quello futuro”, se si crede di vedere il purgatorio in questo passo, bisogna chiedersi se ciò non è contraddittorio, infatti sarebbe come voler ammettere che Gesù si contraddica dicendo, in qualche modo, che chi commette tale peccato non viene perdonato “in questa vita” e neanche chi “lo commette nell’altra vita” (purgatorio). D’altro canto, se qualcuno volesse contraddire dicendo che il “mondo futuro” in questione non va inteso come se Gesù avesse voluto dire che in tale luogo si potrebbe peccare, pongo questa domanda: allora perché, se inutile nel contesto, se cioè non pienamente collegato al messaggio del “né in questo mondo”, perché dico, Gesù lo ha inserito nella sua affermazione? Perché evidentemente ha un suo significato. Quale appare più evidente?

Se prendiamo in considerazione, in questo passo, la tesi del purgatorio siamo costretti, paradossalmente, ad annullare il verso, e del purgatorio non vi rimane né l’ipotetica rivelazione, né l’argomento. Ci si dovrebbe chiedere, in tutta onestà, ma dove sta il purgatorio in questo passo? Esso non si intravede minimamente. Gesù dice solamente che colui che bestemmia contro lo Spirito Santo: (Marco 3:29) “..non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno”, e i teologi cattolici gli fanno dire che ci sono dei peccati che si debbono espiare nel purgatorio per essere perdonati. Poniamo anche il caso che vi siano dei peccati che vengono perdonati nel mondo futuro, innanzitutto “per mondo futuro” Gesù non intese il purgatorio, ma il Regno di Dio sulla terra, poi, secondo la dottrina cattolica del purgatorio, chi muore in grazia va a soffrire delle punizioni nel fuoco, per espiare i suoi debiti, quindi viene condannato ad un supplizio e non perdonato. Tutto ciò è, semplicemente, insensato.

Un altro passo che i teologi cattolici prendono dalla Bibbia per sostenere la dottrina del purgatorio è 1 Corinzi 3:10-15; passerò subito a interpretarlo nella maniera corretta.

Ogni credente salvato dovrà comparire davanti al tribunale di Cristo dove renderà conto di se stesso e del suo operato (Riguardo al tribunale di Cristo per la Chiesa, leggere: 2 Corinzi 5:10; Romani 14:10; 1 Pietro 4:17-19; 1 Corinzi 4:1-6; essa verrà giudicata per prima e soprattutto a parte). In quell’occasione, tutti i veri credenti verranno premiati secondo quella che sarà stata la loro opera quando erano vivi sulla terra.

L’apostolo Paolo descrive il processo, che si realizzerà in quel giorno, parlando di ‘fuoco’ (ovvero il giudizio di Cristo sulla Chiesa), il quale accerterà la vera natura delle opere compiute dai credenti (‘rigenerati e nati di nuovo’) individualmente. Soltanto colui che resterà integro dopo essere stato sottoposto al vaglio del ‘fuoco’ (del giudizio santo) riceverà la ricompensa, la quale non si riferisce alla salvezza del credente che è data a loro solo, come un dono, per la loro fede nell’opera di Cristo (per averlo posto nella propria vita come fondamento), la ricompensa, invece, dipende dal loro servizio amorevole, fedele alla verità e privo di egoismo.

(La ricompensa non è la vita eterna, la quale è il dono di Dio in Cristo e che si ottiene mediante la fede e, quindi, gratuitamente e non perché la si meriti. La ricompensa sarà il premio che ognuno dei salvati avrà secondo quelle che saranno state le loro opere: 1 Corinzi 3:8; 1 Cor. 3:14-15; Ap. 22:12 e che, naturalmente, differirà per ciascuno, perché ognuno è distinto nell’opera e nella fede personale dagli altri. Premio che è bene precisare rimane sempre qualcosa che si potrà ottenere sempre e solo per la misericordia del Signore, perché è Lui che, secondo le Scritture, mette nella condizione di compiere le opere buone).

Il tribunale di Cristo per la sua Chiesa non si riferisce alla salvezza del credente, ma al giudizio delle sue opere; l’apostolo Paolo precisa, inoltre, che l’operaio cristiano sarà salvato anche se la sua opera dovesse andare completamente distrutta; egli però non avrà la ricompensa, o solo parte di essa, in quel caso, infatti “ne riceverà il danno”.

Soltanto i salvati compariranno davanti al tribunale di Cristo in questione. Infatti, Paolo confronta l’opera solo tra coloro che hanno in comune, come saldo fondamento, Gesù Cristo; le differenze sono solo sul come si costruisce sopra. Esistono due tipi di servizio: l’uno è illustrato dall’oro, dall’argento e dalle pietre preziose usate dal credente spiritualmente efficiente nell’edificare la propria ‘vita’, questi non saranno distrutti dal ‘fuoco’ (dal giudizio di Cristo per la sua Chiesa), l’altro è rappresentato dal legno, dal fieno e dalla paglia usati dal cristiano spiritualmente non efficiente nell’edificare la propria ‘vita’, questi, invece, saranno arsi dal ‘fuoco’ (dal giudizio di Cristo per la sua Chiesa).

La questione per il credente nato di nuovo (che ha posto come fondamento Gesù nella sua vita) riguarderà il premio per il credente rigenerato, spiritualmente efficiente, e la perdita del premio, o parte di esso, per il credente rigenerato, spiritualmente non efficiente. Tuttavia, anche il credente rigenerato non efficiente sarà comunque salvato, però come uno scampato dal ‘fuoco’ (come uno scampato dal giudizio di Cristo) e con il rammarico di vedere tutte le sue opere distrutte, ovvero di avere la conferma dal Cristo di non aver condotto una vita cristiana pienamente degna.

Paolo dice: v. 15 “…però come attraverso il fuoco”; egli avendo usato la metafora del costruire con oro, con argento e pietre preziose, o con paglia, con fieno e legno, non può non raffigurare il giudizio di Cristo per la sua Chiesa (il tribunale per i credenti) come un ‘fuoco’, il quale proverà l’opera di ognuno edificata sul fondamento: Cristo Gesù. Così si può affermare riguardo al credente rigenerato spiritualmente non efficiente: ‘però come uno scampato dal giudizio di Cristo’. ‘Edificare su Cristo Gesù’ è una metafora per descrivere il servizio cristiano che riguarda dei credenti nati di nuovo, ovvero convertiti e rigenerati interiormente. Nel passo in questione si parla di un qualcosa che avverrà in un unico momento, davanti al tribunale di Cristo, non di un purgatorio, o di una punizione secolare in un luogo di espiazioni nel fuoco.

Quelli che ‘riceveranno il danno’, avendo posto come fondamento Gesù nella loro vita, saranno ugualmente salvati (tutti quelli che avranno l’onore di comparire davanti al tribunale di Cristo lo saranno), però con ‘l’umiliazione’ di esserlo come degli scampati dal ‘fuoco’ (dal giudizio), in più non riceveranno la ricompensa, o parte di essa, che spetta ad ogni credente spiritualmente efficiente. Nei versi del qui argomentato passo non vi è nessuna indicazione riguardo a un punizione per le proprie colpe (tra l’altro ciò renderebbe vano l’unico sacrificio utile e cioè quello di Cristo Gesù sul legno della croce).

L’immagine del fuoco, associata con la venuta del Cristo, è usata altrove nel N.T.: 2 Tessalonicesi 1:7-8. In che cosa consista la ricompensa non è specificato, anche se la lode di Dio ne farà certamente parte: 1 Corinzi 4:5. L’’edificare’ non solo significa mettere in pratica la volontà di Dio nella propria vita, ma anche attenersi alla Parola di Dio correttamente, nell’evangelizzare, senza scostare, né a destra, né a sinistra, istruendo gli altri (coloro che non conoscono il Signore e non solo questi), attenendosi, in tutto e per tutto, alla verità del messaggio biblico.

Chi non si attiene a ciò, pur essendo un vero credente, uno nato di nuovo, può essere paragonato all’uomo che costruisce con legno, fieno e paglia, ma, secondo la grazia e la volontà di Dio, egli potrà comunque essere salvato, tuttavia, come predetto: come uno scampato ‘dal fuoco’, ‘dal giudizio’. Anche se quest’ultimi (i costruttori con paglia, fieno e legno) avranno ugualmente il dono della salvezza, assieme agli altri, sempre nel passo, descritti non significa che se un credente si comporta da non credente, sarà salvato.

Qui si parla di credenti, tutti rigenerati dallo Spirito Santo a nuova vita, ma che purtroppo, presi da alcuni difetti strutturali e caratteriali della propria personalità e quant’altro, non riusciranno ad avere un perfetto modello di vita cristiana spiritualmente efficiente. Certo è che, comunque, chiunque avrà peccato, credente rigenerato o non, senza vero ravvedimento, non scamperà da alcun tipo di giudizio di Dio. Qui si parla del giudizio delle opere dei salvati, non della salvezza, la quale è un dono di Dio che si ottiene per mezzo della fede: Efesini 2:8-9.

Secondo la Sacra Scrittura, nessuno merita la salvezza, la si ottiene solo per grazia, per aver posto Gesù come fondamento nella propria vita. Ciò significa aver creduto alla sua opera ed essere stati, conseguentemente, pienamente rigenerati, nell’interiore, dallo Spirito Santo; però alcuni, presi dalle cose del mondo, edificano la loro vita non con efficienza, ma, avendo loro accettato con sincerità, amore e fede, la grazia di Dio, saranno comunque salvati, però come degli scampati dal santo giudizio di Cristo. Non è il credente a potersi creare i meriti per la salvezza, in quanto questa è stata donata; se afferrata, per mezzo della fede nel Cristo, secondo la Scrittura, si riceve, per grazia, il dono eterno.

La descrizione del giudizio di Cristo per la sua Chiesa, fatta da Paolo in questo passo, rappresentato come un ‘fuoco’, esprime, con certezza, un avvenimento futuro, il quale avverrà in un unico momento; il purgatorio non sarebbe né un evento futuro, ma presente (sempre secondo i teologi cattolici), né un qualcosa che abbia una durata circoscritta a un unico momento. Un altro passo della Bibbia, dal quale alcuni teologi cattolici tendono ad estrapolare la iniqua dottrina del purgatorio, è Matt 5:21-26 (anche Luca 12:57-59).

Esaminiamolo, dunque, interpretandolo in maniera corretta. Dopo aver dichiarato la validità e l’immutabilità della Parola di Dio (Matt 5:17-20), Gesù entra nei particolari e ricorda i doveri morali presentati dal decalogo e riaffermati con forza da Lui: Matt. 5:21-22. Con l’aggiungere “ma io vi dico” (v. 22) Cristo indica quanto sia più elevata e spirituale la legge morale che i credenti devono adottare. Per spiegare ciò che significa realmente comprendere e mettere in pratica il significato della legge, Gesù ricorda alcuni comandamenti.

Egli ha posto il suo insegnamento ponendo un contrasto con quello degli scribi e farisei. Questi, ad esempio, prendevano alla lettera la legge, quando asseriva “non uccidere” senza tener in considerazione però che anche la sola ira, pur senza degenerare in un danno fisico, costituisce un azione punibile con il giudizio del sinedrio, o tribunale, tanto quanto lo è l’omicidio in sé, l’adulterio, ecc.. In altre parole, per questi (scribi e farisei del tempo di Gesù) fino a quando non si commetteva un omicidio, un adulterio, ecc., non si violava la legge, e quindi non si era sottoposti alla condanna: Levitico 24:17. Persino chiamare un fratello ‘raca’ (idiota, stupido) costituisce una colpa degna di essere sottoposta al giudizio del sinedrio, e dirgli ‘pazzo’, termine che fa trasparire maggiore depravazione, condurrebbe l’offensore a essere meritevole della condanna alla “geenna del fuoco” (inferno). Rovinare la reputazione di un individuo è un altro modo di ucciderlo: Giacomo 3:5-8.

(Gesù parla del sinedrio, rifacendosi ai mezzi di giustizia del suo tempo e del suo popolo, così era sicuro di essere capito da chi lo ascoltava Il sinedrio era il tribunale supremo dei giudei e organismo governativo. Comprendeva settanta membri scelti fra i principali sacerdoti, ovvero gli anziani e gli scribi riuniti sotto la presidenza del sommo sacerdote, che così diventavano settantuno. Nel 47 a.C. Cesare estese di nuovo la giurisdizione del sinedrio di Gerusalemme a tutta la giudea; dal 6 al 66 d.C. i poteri del sinedrio erano vasti. Sotto i romani sembra però che non si potesse procedere alla sentenza capitale se non con l’assenso delle autorità romane. Il sinedrio aveva delle guardie e il diritto di procedere ad arresti. Al momento della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., il sinedrio cessò di esistere).

Gesù dichiara, inoltre, che non basta non uccidere (versi 21-22 del capitolo 5 di Matteo), non adirarsi, non criticare il prossimo, per essere in regola con Dio (tali cose per Gesù sono azioni punibili con il giudizio del sinedrio o tribunale, tuttavia alla lista mancano tante altre mancanze punibili in ugual modo), bisogna, invece (v. 23-26), prendere sempre delle buone iniziative.

Il Signore dichiara che un ‘debitore’ deve “far presto un amichevole accordo” e non arrivare al giudice per evitare di essere consegnato al carceriere e tenuto in prigione fino al “pagamento del debito”, ovvero fino alla conclusione della pena che variava a seconda del crimine di cui si era stati accusati nei confronti della legge (spesso le condanne erano di morte).

Quest’affermazione equivale al ‘fai il possibile per non avere alcun tipo di pendenze con nessuno, e se dovesse succedere, risolvile il prima possibile, anche patendo torto e danno’.

Se un credente lamenta un qualcosa contro un fratello e pensa di risolvere il problema in tribunale, è bene che costui sappia che tale comportamento non è in linea con la volontà di Dio. Quel tale intanto non creda di poter avere delle risposte alle sue preghiere e si ricordi che porterà la responsabilità di un simile atteggiamento non cristiano: 1 Corinzi 6:1-9. Al v. 23-24, sempre del capitolo 5 di Matteo, Gesù vuole semplicemente dire che prima di volgersi alla preghiera (in quel tempo erano in uso ancora le offerte non cruenti sull’altare; Gesù doveva ancora morire per i peccati del mondo e abrogare per sempre, ‘nell’età presente’, offerte e sacrifici di animali prescritti dalla legge mosaica) bisogna, nel torto o nella ragione, riconciliarsi con il fratello con il quale si è avuto un problema o un equivoco, primo perché altrimenti le preghiere non verranno esaudite da Dio, secondo per evitare anche il rischio, con tale comportamento orgoglioso, di essere trovato giustamente o ingiustamente colpevole davanti a un tribunale umano ed essere dato dal giudice nelle mani delle guardie, per essere portato in prigione a scontare una pena che si poteva evitare se si fosse avuto un approccio più cristiano con il prossimo (Leggere anche Luca 6:36-37).

Dove emergerebbe il purgatorio in questi passi Inutile, a questo punto, ogni altro commento! Versi 25-26; è chiaro che Gesù parla di liti fra fratelli e sorelle nella fede (ma non solo), i quali, affidandosi al giudizio del tribunale (anziché a un accordo amichevole), potevano incorrere in spiacevoli condanne del tribunale, con la relativa pena. Le parole di Gesù hanno un valore particolare nel suo tempo, in cui l’ordine della giustizia per i giudei era affidato al sinedrio, il quale era anche un organo religioso, con il quale, attraverso l’osservanza della legge mosaica, si decretavano giudizi molto severi e talvolta purtroppo anche con spiccata arbitrarietà.

In altre parole, Gesù vuol semplicemente dire che è meglio accordarsi amichevolmente che finire davanti al tribunale. Al v. 23-24 Cristo invita il credente, prima di offrire le preghiere a Dio, ad andare a riconciliarsi con il fratello o sorella, a cui si è fatto un torto (o perlomeno quando uno degli interessati lo crede), e solo dopo aver fatto questo si può pregare con la certezza che le richieste fatte al Signore potranno, secondo la volontà di Dio, essere esaudite; in più si eviterà (in caso si sia recato un danno a qualcuno punibile di pena) di incorrere in qualche condanna di un tribunale. Così avrà vinto la legge della fratellanza, del perdono, della riconciliazione, invece di quella della punizione e della forza.

La frase: “fa presto amichevole accordo con il tuo avversario, mentre sei ancora per via con lui” è un comando del Signore, il quale chiede di tentare sempre la via della riconciliazione fraterna, anziché avere dispute davanti ad un giudice di un tribunale. I versi 25 e 26 seguono i versi 23 e 24, in cui Gesù, parlando di liti fra fratelli, invita a riconciliarsi prima di porsi in preghiera a Dio. In sintesi, il discorso di Gesù, nel passo qui oggetto di analisi, è, semplicemente, incentrato sul perdono e la fratellanza. La dottrina del purgatorio ha un origine pagana e gnostica risalente all’antica filosofia greca, la quale, nel cristianesimo di ‘massa’, assieme ad altri congiunti elementi, ha dato vita, alcuni secoli dopo l’era apostolica, ad un sincretismo (fusione) nel seno del cristianesimo. Appare chiaro come i teologi cattolici siano in totale confusione riguardo alle dottrine contenute nelle Sacre Scritture, ovvero cercano di far dire alla Bibbia, e di conseguenza a Dio, quello che non è minimamente dichiarato.

Questi ‘dottori’ e teologi cattolici ‘serrano il regno dei cieli’ alle moltitudini proprio come facevano gli scribi e i farisei al tempo di Gesù (Matt. 23:13). Un altro passo che viene preso dai teologi cattolici per tentare, vanamente, di dimostrare la dottrina del purgatorio è: 1 Pietro 3:18-20. È onesto e utile dichiarare che siamo di fronte a uno dei passi più difficili della Bibbia.

Sono tanti gli studiosi della Scrittura, di svariate confessioni di fede (anche cattolica), ad ammettere che questo passo è difficile da interpretare e da spiegare correttamente.

Non possiamo sapere, con assoluta certezza, cosa Pietro volesse dire in 1 Pietro 3:18-20, anche se, avvalendoci del metodo di scartare le ipotesi non bibliche, si può essere sicuri di spiegare il passo, certamente, senza uscire fuori dal senso generale del messaggio biblico.

Vi sono, come predetto, molteplici teorie a riguardo. Dopo averle studiate tutte attentamente e aver meditato a lungo sul passo, l’interpretazione più ovvia, più corretta e senza contraddizioni apparenti, è la seguente: i credenti giudei, ai quali Pietro scriveva, erano sommersi, quasi completamente, dal mondo pagano circostante. Pietro li incoraggia facendo riferimento al ministero di Cristo in Spirito, attuatosi attraverso Noè, rivolto alla generazione antidiluviana.

Il v. 19 vuole dire che Gesù, per mezzo del medesimo Spirito che lo aveva vivificato dopo la sua morte, era andato anche ai giorni di Noè a predicare (attraverso la persona di Noè) agli uomini ribelli, i cui spiriti sono adesso ritenuti in carcere, ovvero nell’Ades, in aspettativa di essere puniti definitivamente nel giorno del giudizio, e che quindi sono ancora oggi in ‘carcere’.

Cristo per mezzo del suo Spirito predicò loro attraverso Noè. L’accenno all’esistenza di Cristo “quanto allo spirito” (v. 18) richiama, alla mente, il fatto che il Cristo prima di incarnarsi era presente al tempo di Noè proprio in questi, e predicava, tramite lui, per opera dello Spirito Santo. Pietro, del resto, ha già parlato della presenza dello “Spirito di Cristo” nei profeti dell’A.T.: 1 Pietro 1:11; 2 Pietro 1:21. Più tardi egli definisce Noè “predicatore di giustizia”: 2 Pietro 2:5.

Lo Spirito di Cristo predicò attraverso Noè agli esseri umani increduli (del periodo antidiluviano), i quali, al tempo in cui Pietro scriveva, erano “spiriti in carcere”, in attesa del giudizio finale. “E in esso”, ovvero in Spirito, andò anche a predicare ai giorni di Noè agli uomini increduli, i quali non si ravvidero, e quindi alla loro morte, le loro anime (i loro ‘spiriti’) si sono viste precipitare in ‘carcere’. Il loro peccato fu la disubbidienza (furono increduli e ribelli), aggravata dalla pazienza di Dio mostrata per tutto il tempo in cui si costruiva l’imponente arca.

Questa ribellione portò all’annegamento dei loro corpi (tramite il diluvio) e allo sconfinamento dei loro spiriti in ‘carcere’ (o soggiorno degli ingiusti). Questo ministero avvenne per mezzo dello stesso Spirito di Dio (Rom. 8:11), il quale resuscitò il Cristo. Si trattò di un ministero di predicazione, attraverso il quale Cristo agì in modo speciale verso tali peccatori per portarli al ravvedimento, ma da come andò a finire (infatti solo otto persone si salvarono) questi peccatori furono sommersi dall’acqua e perirono, e oggi i loro spiriti, come quelli di qualsiasi altro peccatore incredulo di ogni epoca che non si sia ravveduto e che non abbia invocato il Signore, sono in ‘carcere’, ovvero nel soggiorno dei morti o degli ingiusti, il quale è il precursore di quel luogo in cui verranno eternamente sconfinati: lo stagno di fuoco e zolfo, o l’inferno.

Un altro esempio simile a quello di Noè lo si può riscontrare con Giona profeta in Israele, vissuto intorno al IX a.C., il quale fu inviato a predicare il pentimento a Ninive: Giona 1:1-2; c. 3:1-10.

Il verso 18 di 1 Pietro capitolo 3 fino al v. 20 dice: “…fu messo a morte quanto alla carne (ucciso quanto alla carne) ma reso vivente quanto allo spirito (ma vivente quanto allo Spirito). E in esso (cioè in Spirito) andò anche a predicare agli spiriti (ora) trattenuti in carcere, che una volta (quando Gesù predicò in Spirito: 1 Pietro 1:11) furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè (Genesi 6:3), mentre si preparava l’arca, nella quale poche anime, cioè otto, furono salvate attraverso l’acqua”. Il modo migliore per spiegarlo è di interpretare il testo dando questo significato a tali parole: “spiriti che sono ora in carcere” (ossia al tempo in cui Pietro scriveva e anche tuttora), ma al tempo di Noè, quando Cristo in Spirito predicava attraverso questi (Noè), erano persone viventi. Un’espressione simile la si trova in 1 Pietro 4:6: “Infatti per questo è stato annunziato il vangelo anche ai morti…” (anche se vivi quando esso veniva loro predicato).

Si può affermare la medesima cosa, con un esempio: il presidente Kennedy nacque nel 1917, questa è una notizia corretta, anche se egli non era presidente quando nacque; con ciò si intende dire: Kennedy che fu presidente nel 1960 nacque nel 1917. Non deve portarci in confusione il fatto che Pietro per voler dire in sostanza che “Cristo in Spirito andò anche a predicare ai giorni di Noè agli uomini ribelli, i cui spiriti (o le cui anime), oggi sono trattenuti in carcere”, usi una simile espressione: “..andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere..”. Anche noi, del resto, siamo soliti usare ‘simili’ espressioni, nel senso che spesso usiamo le parole: ‘anima’ e ‘uomo’ con un rapporto di intercambiabilità (‘Un paesino di duecento anime’; ‘Non c’è anima viva’; ‘Tante anime da sfamare’; ecc.), e quando usiamo la parola ‘anima’ non necessariamente la intendiamo sempre e solamente nel suo stretto significato.

Ad esempio: ‘Quell’anima che è salita in cielo (o che è in cielo) l’ho evangelizzata io’; anche se quando è stata evangelizzata era in un corpo umano vivente sulla terra; ‘Con la buon’anima di….ci divertivamo a passare delle giornate intere davanti alla tv’; e cosi via dicendo. Allo stesso modo noi potremmo dire: “E in Spirito andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere (cioè agli uomini che oggi sono solo nella forma di spiriti trattenuti in ‘carcere’), che una volta furono ribelli quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè, mentre si preparava l’arca…”. Sono spiriti trattenuti in ‘carcere’ che una volta furono ribelli, e lo furono quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè, mentre si preparava l’arca. In qualche modo è come se Pietro volesse dire che il messaggio di salvezza di Cristo non si è attuato solo nel tempo in cui Pietro scriveva, ma anche nel passato, come ai tempi di Noè, quando fu decretata, da Dio, la distruzione dell’uomo sulla terra. Ovvero Gesù, oltre ad avere predicato apertamente e fisicamente al tempo di Pietro, lo aveva anche ‘similmente’ fatto per mezzo del medesimo Spirito, il quale lo aveva vivificato dopo la sua morte, anche (“E in esso andò anche..”) ai tempi di Noè, predicando il messaggio del ravvedimento e della salvezza agli uomini ribelli, che però non lo accolsero (eccetto Noè e la sua famiglia), e Pietro fa un paragone con l’epoca presente che si avvia anch’essa al giudizio degli empi e all’estirpazione del male (già decretati da Dio, come fu ai tempi di Noè).

Il vero scopo di Pietro, scrivendo questo passo, è di fare un parallelismo tra l’acqua dei giorni di Noè e l’acqua del battesimo in Cristo Gesù di oggi: v. 20-21. L’arca sulle acque del diluvio è il tipo della salvezza in Cristo (la vera arca). L’acqua a quei tempi separò semplicemente i giusti (Noè e la sua famiglia, otto in tutto) dal peccato e dai peccatori. Lo stesso fa il battesimo per i credenti; l’acqua non salva, ma in esso (nel battesimo) è figura dei salvati che sono stati separati dai peccatori e dal loro destino. Come l’acqua divise Noè e i suoi cari dal mondo peccatore e l’arca fu il mezzo con il quale furono salvati (a motivo della loro fede) l’acqua battesimale oggi ‘divide i credenti dal mondo peccatore’, ma è la fede in Cristo Gesù che salva (vera arca).

Come dice Pietro (v. 21) il battesimo non è l’eliminazione di sporcizia dal corpo (non è un atto magico che rende il credente puro dalle nostre colpe), ma è la fede sincera, in esso professata, che rende al credente il perdono del peccato. Nessun rito esteriore può salvare. Lo scopo di Pietro, nel summenzionato passo, era, probabilmente, quello di fare una similitudine fra la salvezza offerta al tempo di Noè e del diluvio e la salvezza derivata da Cristo oggi, per gli argomenti prima citati. Anche qui non c’è nessun accenno al purgatorio.

Per avere un’idea più precisa su quanto Pietro argomenta nella sua prima lettera al capitolo 3:18-20 si legga, con attenzione, quanto, in 2 Pietro 2:4-10, lo stesso dichiara riguardo agli uomini della generazione di Noè che vennero puniti col diluvio. Particolare attenzione si tenga alla lettura del v. 5, nel quale Noè viene presentato come un predicatore di giustizia e del v. 9, in cui è dichiarata la punizione, nel giorno del giudizio, degli ingiusti, discorso che si connette anche riguardo a coloro che perirono, ai tempi di Noè, nel diluvio. Pietro, in alcun modo, argomenta su un purgatorio, inoltre dichiara che coloro che furono puniti in quel tempo (ai tempi di Noè) tuttora sono ‘carcerati’ per il giorno del giudizio, non stanno in cielo o in qualche altro posto (ad esempio nel purgatorio), anzi la loro condanna, per l’empietà compiuta, è già decisa.

Leggere il v. 9: “ciò vuol dire che il Signore sa liberare i pii dalla prova e riservare gli ingiusti per la punizione nel giorno del giudizio”. La Bibbia cattolica C.E.I. Riporta riguardo al passo della prima lettera di Pietro: v. 19 “E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione”. Questa frase col verbo ‘attendevano’ è priva di senso logico.

Leggere: 2 Pietro 2:5 “se non risparmiò il mondo antico ma salvò, con altre sette persone, Noè, predicatore di giustizia, quando mandò il diluvio su un mondo di empi”; v. 9: “ciò vuol dire che il Signore sa liberare i pii dalla prova e riservare gli ingiusti per la punizione nel giorno del giudizio” (Sarebbe meglio, comunque, leggere tutto 2 Pietro 2:4-10). Credo sia chiaro che Pietro non dia in alcun modo da pensare a una salvezza portata da Gesù ai ribelli nel soggiorno degli ingiusti (‘carcere’), in quanto ribadisce che coloro che furono empi allora, tuttora aspettano “la punizione nel giorno del giudizio”. Del resto, una possibilità di salvezza dopo la morte sarebbe fortemente in opposizione con quanto dice la Bibbia: Ebrei 9:27; Luca 16:26.

Sarebbe davvero illogico prendere in esame la traduzione letterale, del passo qui in esame, della cattolica C.E.I. che riporta il verbo ‘attendevano’, in quanto così non si potrebbe comprendere il senso che Pietro voleva dare al suo scritto (anche se in alcun modo si evidenzierebbe l’ipotesi del purgatorio) confrontandolo con quello che chiaramente dice in 2 Pietro 2:4-10, ovvero che quegli empi sono tuttora (i loro spiriti, le loro anime) incarcerati per il giudizio che verrà. Potremmo invece usare lo stesso verbo ‘attendere’ nella forma che appare più logica e adatta: ‘che attendono in prigione’, ovvero che attendono in prigione il giudizio che verrà.

Per cui usando la traduzione C.E.I. potremmo così porre il v. 19 (anche se il greco porta ‘predicare’, non ‘annunziare la salvezza’): “E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendono in prigione (ossia agli uomini i cui spiriti o le cui anime oggi sono in prigione per essere, definitivamente, giudicati nel giorno del giudizio), (v.20) essi avevano un tempo rifiutato di credere (quando Gesù in Spirito predicò la salvezza tramite il ministero di Noè), quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca…”; 2 Pietro 2:5: “se non risparmiò il mondo antico ma salvò, con altre sette persone, Noè, predicatore di giustizia…..”; v. 9: “ciò vuol dire che il Signore sa liberare i pii dalla prova e riservare gli ingiusti per la punizione nel giorno del giudizio”. Pietro afferma chiaramente che gli ingiusti, compresi quelli della generazione di Noè, devono essere puniti nel giorno del giudizio, non che sono stati liberati o che hanno avuto un’altra possibilità. Comunque lo si voglia interpretare questo passo, in alcun modo, si può arrivare a individuare la dottrina del purgatorio, negata e non menzionata in tutte le Sacre Scritture, le quali al contrario rivelano una realtà ben diversa: i giusti a vita eterna, gli ingiusti a condanna eterna, senza via di mezzo o un’altra possibilità dopo la morte.

Ma rivediamo meglio, per togliere ogni dubbio, la traduzione C.E.I. di 1 Pietro 3:19-20: “E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione, essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua”.

Il testo dice: “…essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè..”, è chiaro che qui non si parla di spiriti di uomini che all’ultimo momento (come sostengono i teologi cattolici a favore dell’individuazione del purgatorio nel passo), al tempo di Noè, si pentirono e sono finiti (sempre secondo tesi cattoliche) in un purgatorio dal quale Cristo poi in Persona gli avrebbe liberati; il testo dice: “essi (‘gli spiriti’) avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè”. È chiaro che parla di ‘spiriti’, i quali non credettero fino all’ultimo, ovvero per tutto il tempo della predicazione di Noè. L’idea del purgatorio in questo passo (come in altri) non regge in alcun modo. La Scrittura dice chiaramente che ogni uomo verrà condannato o salvato secondo quanto avrà fatto nella sua vita sulla terra, e non secondo ciò che potrebbe fare lui o altri per lui, dopo la sua morte: Ebrei 9:27 “Come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di ché viene il giudizio”; Marco 16:16: “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato”; ecc..

Del purgatorio sia in questa errata traduzione cattolica, sia in altre più appropriate, non vi è alcun accenno, traccia, o indizio. Inoltre, il testo C.E.I. dice: “anche agli spiriti che attendevano in prigione, essi avevano un tempo rifiutato di credere”, quindi riguardo a tutti gli spiriti degli uomini e donne del tempo del diluvio sarebbe stata predicata o annunciata la salvezza e non solo a degli ipotetici spiriti di uomini pentitisi prima di morire nel diluvio.

Maliziosamente i teologi cattolici, i quali, in questo passo, sostengono la dottrina del purgatorio senza che vi sia alcun indizio, dicono che l’annuncio della salvezza era indirizzato solo ad alcuni di questi spiriti, ovvero a coloro che si erano pentiti appena prima di morire nel diluvio.

È chiaro, invece, come il passo dica esplicitamente che si tratti di tutti gli spiriti degli uomini che “avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca…” (C.E.I.). La teoria di questi teologi cattolici risulta falsa e puerile. La traduzione del passo (come anche l’interpretazione data da taluni teologi cattolici) non regge. Chiederei ai teologi cattolici: se è vero che qui si parla del purgatorio, perché mai Pietro avrebbe parlato solo degli spiriti ‘pentiti’ degli uomini del tempo di Noè? Tanti altri spiriti purganti si sarebbero dovuti trovare nel purgatorio in quel tempo, assai più numerosi e incalcolabili in confronto ad un numero assai esiguo che può essere stato quello dei pentiti della perversa generazione del tempo di Noè descritta dalla Bibbia: Genesi 6:5-13. Tutti gli altri perché non sono menzionati? Perché Pietro non avrebbe parlato esplicitamente dell’annuncio della salvezza a tutti gli spiriti purganti di ogni epoca? Come mai Lazzaro entrò direttamente nel seno di Abraamo (paradiso) senza andare prima nel purgatorio cattolico? Luca 16:22-31 (Secondo le scritture, il seno di Abraamo, prima dell’ascensione di Cristo, era il soggiorno provvisorio dei giusti, da allora in poi le anime giuste salgono direttamente in cielo). Come mai il ladrone doveva andare lo stesso giorno nel paradiso (seno di Abraamo) con Gesù, senza dover andare prima nel purgatorio cattolico? Luca 23:39-43. Eppure aveva rubato e chissà quante altre cose ingiuste aveva commesso; non doveva la sua anima essere purgata da questi peccati, prima di andare in paradiso?

I teologi cattolici, i quali interpretano il passo in modo tale da volervi vedere, a tutti i costi, il purgatorio, dicono questo: dopo la sua morte Cristo proclamò la salvezza agli spiriti di coloro che si erano pentiti appena prima di morire nel diluvio e li portò fuori dal loro ‘carcere’ (purgatorio) per condurli in paradiso. Innanzitutto risulterebbe difficile capire come mai Gesù sarebbe dovuto andare solo a salvare gli ipotetici pentiti del diluvio, e non, ad esempio, anche quelli ipotetici di Sodoma e Gomorra o, comunque, tutti quelli pentiti, graziati, e salvati di tutte le altre epoche fino ad arrivare alla morte, resurrezione e ascensione di Gesù.

Se Pietro avesse voluto parlare di spiriti di uomini che si erano pentiti poco prima di morire nel diluvio, ai quali (agli spiriti) nell’Ades (nel ‘carcere’) fosse stata concessa la liberazione (la salvezza) avrebbe dovuto scrivere qualcosa del genere: “E in esso andò a liberare gli spiriti degli uomini pentiti del tempo del diluvio che erano trattenuti in carcere…” anziché: “E in esso andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere, che una volta furono ribelli quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè…” (1 Pietro 3:19-20). È chiaro, specialmente con l’ultima frase, come il passo di Pietro dia ad intendere molto bene che la ribellione di questi uomini durò fino alla loro morte e almeno fino ad allora (come del resto in seguito nell’Ades) non ci può essere stato il pentimento da parte loro. La predicazione di Noè consistette in una proclamazione, ai peccatori di quel tempo, del loro bisogno di pentirsi e di confidare in Dio. Questa predicazione invitava loro al pentimento e quindi di conseguenza alla salvezza.

Se Gesù fosse andato nel purgatorio cattolico, a liberare quegli spiriti, non avrebbe predicato o proclamato il ravvedimento, ma li avrebbe direttamente liberati, in quanto spiriti con una esperienza passata di pentimento (al diluvio), unico mezzo di scampo grazie al quale (ovvero al loro pentimento) essi si trovavano nel purgatorio cattolico e non nel soggiorno degli ingiusti (Ades). Sarebbe stato, quindi, non necessario e, dunque, superfluo predicare a questi spiriti il ravvedimento, se proprio il pentimento era stato il motivo per mezzo del quale essi si trovavano in quel luogo (e forse è per questo problema, ovvero per avvicinare il senso del passo di Pietro alla tesi cattolica, che la C.E.I. -versione cattolica- porta “annunziare la salvezza”, anziché “predicare”).

Certamente, poi, Pietro avrebbe scritto diversamente: “E in esso (in Spirito) andò a liberare gli spiriti degli uomini pentiti del tempo del diluvio che erano trattenuti in carcere..”. Urge precisare che, anche se così fosse, dico per assurdo, quella di Gesù sarebbe stata un’unica visitazione e solo agli ‘spiriti degli uomini pentiti’ che morirono nel diluvio, quindi ciò non avvallerebbe comunque la dottrina del purgatorio e soprattutto neanche la visitazione continuata e allargata a tutti gli ‘spiriti degli uomini pentiti’ di ogni tempo.

Sappiamo bene, inoltre, come insegna la Chiesa Cattolica, che il purgatorio è un luogo di espiazione di durata differente da individuo a individuo, dipendente dalle colpe personali che bisogna espiare. Secondo l’interpretazione cattolica di questo passo invece tutti ‘gli spiriti pentiti’ sarebbero dovuti rimanere in purgatorio per millenni (fino all’ascensione di Gesù) in ugual modo, indipendentemente dai loro differenti e individuali peccati. Inoltre, ciò non indurrebbe, assolutamente, a pensare a un altro ritorno di Cristo sia per gli altri ‘purganti’ del passato che del tempo presente e futuro. Impossibile, dunque, vedere, in questo passo, la dottrina del purgatorio e nemmeno con la poco accurata traduzione cattolica C.E.I..

Alcuni interpretano il passo affermando che Gesù andò dagli spiriti ‘carcerati’ degli uomini, vissuti al tempo del diluvio, per proclamare la loro condanna, ma allora perché andare solo da loro e non da tutti gli spiriti ‘carcerati’ di ogni epoca? Questa è solo un’osservazione contro quest’altra teoria, in realtà se ne potrebbero aggiungere tante altre; il compito di questo studio è però, primariamente, quello di rendere vana l’interpretazione cattolica del purgatorio in questo passo e non solo. Altri credono che ‘gli spiriti’ del passo di Pietro possono essere angeli caduti per un peccato molto grave (secondo un’errata interpretazione di Genesi 6:1-4) ai quali Gesù proclamò la sua vittoria e la loro condanna. Ad ogni modo, queste ultime due teorie sono sempre molto più accettabili dell’iniqua teoria cattolica che qui abbiamo analizzato.

La versione C.E.I. non rispetta (oltre che per il verbo ‘attendere’) la traduzione dall’originale greco del verbo ‘Kèryssò’ al v. 19 che significa ‘predicare’, ‘proclamare’, più che ‘annunziare la salvezza’; dal contesto si deduce che tale predicazione era volta al pentimento, al ravvedimento e solo conseguentemente a questo alla salvezza. Del resto, in una Chiesa Pagana com’è quella Cattolica, piena di non convertiti e solo battezzati in acqua, senza ravvedimento, definiti cristiani a parole, ma che non lo sono poi nei fatti (parlo della stragrande maggioranza) è chiaro che l’idea del purgatorio venga presa in considerazione con facilità dal popolo (pagano cattolico), in quanto nelle loro coscienze sanno bene che, per la distanza enorme in cui si trovano dal compiere un effettiva e reale vita cristiana, non potrebbe altrimenti esserci salvezza per loro.

Una Chiesa piena di infedeli richiede un alternativa in più, un luogo di smistamento per coloro che più che essere cristiani di fatto lo sono solo di nome. Nella Chiesa di Cristo, secondo le Sacre Scritture, si vive per fede, e vera speranza, in comunione con lo Spirito Santo.

Il cristiano rigenerato, nato di nuovo, sa di poter raggiungere Gesù subito dopo la morte, in quanto l’azione potente del suo sangue, versato sulla croce, lo ha purificato; egli sarà salvato in virtù della fede in Cristo Gesù, per sola e unica grazia. Che speranza hanno i cattolici, sottomettendosi al regime della Chiesa Romana, anziché a Gesù e alla sua Parola?

Infatti, secondo essa (la Chiesa Romana) solo alcuni vanno direttamente in paradiso, ad esempio San Pio, San Francesco, ecc. (gli uomini fatti ‘santi’ dalla Chiesa Cattolica, più un altro numero esiguo di sconosciuti), la stragrande maggioranza (il 99,9%) dei salvati dovrà aspettarsi, dopo la propria morte, di andare chissà per quanti anni, decenni, o addirittura secoli, nel fuoco punitivo e purificatore del purgatorio. Questa è forse una speranza cristiana? È forse quest’idea che potrebbe far vivere, a un credente, una vita cristiana in allegrezza di cuore, come dicevano il Signore Gesù e gli apostoli nelle loro lettere? È quest’idea che potrà rendere più forti nella fede?

L’idea cattolica di interpretare, il passo in questione, in questa direzione, nasce nel 1586 con Roberto Bellarmino, mentre fino ad allora, a partire da Agostino, aveva, in qualche modo, prevalso, in ambito cattolico romano, l’idea che interpretava il passo con la predicazione in Spirito di Cristo agli uomini del tempo di Noè. Quest’odierna interpretazione cattolica prima del 1586, con Roberto Bellarmino, non compare sulla scena ufficiale della Chiesa Cattolica, ma compare l’altra, appunto quella esposta da Agostino. È evidente il fatto che la parola ‘carcere’, nel passo di Pietro, stia ad indicare l’Ades o soggiorno degli ingiusti, ovvero il precursore dell’inferno.

Altro passo, della prima lettera di Pietro, da considerare, oltre a quello che abbiamo trattato, è 1 Pietro 4:6: “Infatti per questo è stato annunziato il vangelo anche ai morti, affinché, dopo aver subito nel corpo il giudizio comune a tutti gli uomini, possano vivere mediante lo Spirito, secondo la volontà di Dio”. In questo passo l’apostolo ribadisce che il nome di Cristo è stato evangelizzato non solo ai cristiani viventi al tempo nel quale scrive la sua lettera, ma anche a quelli (i cristiani) che erano morti sin dal tempo della predicazione di Gesù. L’evangelizzazione per costoro, appunto, non è però stata inutile, come si potrebbe pensare al vederne la morte terrena, pari a quella dei non credenti, poiché essa è il necessario transito ad una vita più gloriosa, con la futura resurrezione. Questo passo non ha nulla a che vedere con 1 Pietro 3:18-20.

Per capire meglio il significato del capitolo 4 di 1 Pietro v. 6 leggere: 1 Cor. 15:18-19. Il defunto cristiano sembra essere punito con la morte, quanto al suo essere mortale, come l’incredulo, ma agli occhi di Dio vi è una differenza enorme; mentre l’incredulo non potrà vivere per lo Spirito Santo (che non ha ricevuto) assieme a Dio, in quanto ribelle alla lieta notizia annunziata dal Cristo, il credente potrà vivere con Dio mediante lo Spirito che lo vivifica e che lo farà risorgere a vita eterna con un corpo glorioso al tempo della resurrezione. Nel v. 6 Pietro, a differenza di quanto dice nel v. 5 riguardo al destino degli increduli, incoraggia i suoi lettori affermando che, invece di affrontare il giudizio per i loro peccati, coloro che hanno udito e creduto all’evangelo di Gesù Cristo affrontano un futuro totalmente differente. La pena per il loro peccato è stata subita da Cristo sulla croce. L’ultima conseguenza terrena per il credente è la morte fisica.

La parola ‘morti’ del v. 6 equivale a ‘credenti che sono morti’ (Pietro qui rivolge l’attenzione al destino dei credenti morti), mentre nel v. 5 significa ‘tutti i morti’. Egli dice (v. 6): “Infatti per questo è stato annunziato il vangelo anche ai morti..”. Il pronome dimostrativo ‘questo’ (v. 6) si riferisce all’argomento della frase precedente (v. 5), ovvero il giudizio di Dio sui vivi e sui morti; in altre parole è stato a motivo del giudizio finale che l’evangelo è stato predicato anche a coloro (i cristiani) che ora, al tempo in cui Pietro scriveva la lettera, sono morti, ma che vivono però mediante lo Spirito di Dio. In questo modo la parola ‘morti’ del v. 6 vuol dire ‘coloro che ora sono morti’ (al tempo in cui Pietro scriveva) anche se erano ancora viventi quando l’evangelo venne loro predicato. Il fatto che essi siano morti non dovrebbe turbare le menti di quanti sono rimasti in vita, poiché il vangelo non ha mai inteso salvare individui dalla morte fisica, bensì dalla morte e dalla condanna eterna.

Tutti, cristiani e non, devono morire fisicamente (e questo è il significato dell’espressione “aver subito nel corpo il giudizio comune a tutti gli uomini”). L’evangelo fu predicato loro (‘ai morti’ del passo in questione: v. 6) affinché essi potessero salvarsi dal giudizio finale anche se non sarebbe loro stata risparmiata la morte fisica. L’interpretazione di questo passo ci aiuta anche a capire meglio l’interpretazione del passo di 1 Pietro: 3:18-20.

Passiamo ora ad esaminare quei libri apocrifi che la Chiesa Cattolica ha inserito nel canone della Bibbia. Essi sono: Tobia, Giuditta, Sapienza, Ecclesiastico, Baruc, 1 e 2 Maccabei. Oltre all’aggiunta di questi libri apocrifi nella Bibbia cattolica occorre dire che sono state fatte delle aggiunte al libro di Ester e a quello di Daniele. Questi sono dei libri che la Chiesa Cattolica Romana (assieme alle aggiunte a Daniele e a Ester) dichiarò Scrittura ispirata da Dio in modo ufficiale nella sessione dell’otto aprile 1546 del Concilio di Trento. Questo Concilio lanciò un anatema contro chi non riconosceva tutti i libri della Bibbia cattolica come sacri e canonici (per cui anche contro coloro che non riconoscevano e non riconoscono, come Parola di Dio, i libri apocrifi e le aggiunte a Ester e a Daniele).

Questi libri sono pieni di contraddizioni (reali e non apparenti) e di errori; né Gesù e neppure gli apostoli fecero mai riferimento, direttamente o indirettamente, a questi libri apocrifi. Gli ebrei non li riconobbero mai (e neanche oggi) come canonici e neanche i cristiani dei primi secoli d.C. li riconobbero mai come sacri. Per quanto riguarda il passo di 2Maccabei 12:38-45 (riguardo al sacrificio che sarebbe stato offerto per i morti), ma, più in generale, per tutti i libri apocrifi citati che fanno parte del canone cattolico, questi non sono ispirati da Dio ed è altresì chiaro che, soprattutto nel caso del libro 2 Maccabei, l’autore si sia affidato oltre alle prove storiche degli avvenimenti, anche a fatti non ben documentati e accertabili e a volte anche leggendari. Riguardo a questi libri abbiamo svariate prove, le quali dimostrano che questi non sono ispirati (ad esempio leggere: 2 Maccabei 2:23-32; c. 15:38-39; uno scrittore ispirato non avrebbe mai potuto dire quanto invece viene riportato qui).

Questi libri apocrifi, non fanno parte del canone ebraico; Gesù non li cita mai e nemmeno i suoi apostoli. D’altronde non c’è da meravigliarsi di alcuni aspetti leggendari di questi libri, perché di norma gli apocrifi (anche tanti altri che sono esclusi anche dalla Chiesa Cattolica Romana) ne presentano quasi sempre di eclatanti, a prova del fatto che chi scriveva lo faceva sotto l’impulso meramente umano (Apocrifo = nascosto. Questo termine è stato impiegato per un certo numero di scritti dell’A.T. considerati dubbi per la loro origine ed il loro valore).

Questi libri apocrifi non figurano e mai hanno figurato nella Bibbia ebraica, ma sono stati introdotti nella traduzione greca del III secolo a.C. della versione dei LXX (Settanta), la quale tuttavia non li ha mai ritenuti canonici, passando di lì in seguito nella versione latina (Volgata) e in moltissime versioni antiche e moderne fino ad oggi. La sinagoga non li considerava affatto ispirati. Perfino alcuni degli autori di questi libri negano loro ogni ispirazione divina: prologo all’Ecclesiastico; 2 Maccabei 2:23-32; c. 15:38-39. Nel IV sec. d.C. Girolamo stesso, il traduttore della Bibbia latina (Volgata), per primo, contestò l’insieme degli scritti nella raccolta delle Sante Scritture della versione dei LXX. La versione dei LXX li aveva introdotti ritenendoli semplicemente libri sapienzali, poetici, storici, ma non ispirati. Negli scritti apocrifi è completamente assente il soffio profetico, e molte dottrine, da questi espresse, sono spesso in contraddizione con la dottrina del canone ebraico.

La Chiesa Romana ha seguito piuttosto Agostino che Girolamo. Col Concilio di Trento (1546) essa proclamò canonici tutti i libri apocrifi contenuti nella versione dei LXX (e con essi le aggiunte a Daniele e ad Ester) e nella Volgata, ad eccezione del III e IV libro di Esdra e delle preghiere di Manasse (ciò dovrebbe illuminare nella comprensione di come, nel fare molte cose, la Chiesa Cattolica abbia cambiato spesso le proprie direttive, a volte accettando, altre volte respingendo quanto prima era stato accettato o respinto).

Se potevano essere definitivamente ritenuti apocrifi il III e il IV libro di Esdra e la preghiera di Manasse, perché non si doveva agire nello stesso modo anche per gli altri libri apocrifi (1 e 2 Maccabei, Baruc, Tobia, ecc.) prima elencati e contenuti anch’essi nelle due versioni (ovvero la LXX e la Volgata)? Questi apocrifi, i quali furono tolti, non facevano parte del canone ebraico, come del resto non vi facevano parte anche quelli che, ancora oggi, la Chiesa Romana ritiene ispirati. Alcuni li ha tolti, altri no, come se essa fosse Dio per poter scegliere quali prendere e quali no.

Il Concilio Vaticano (1870) confermò la decisione del Concilio di Trento. In qualche versione cattolica si riconosce che sono libri deuterocanonici, non ispirati, e assenti nella Bibbia ebraica, e che sono stati aggiunti dopo nel canone della Bibbia cattolica.

La Riforma, al contrario, si attenne all’opinione di Girolamo, il quale riteneva saggiamente, con le dovute prove, che tali libri fossero apocrifi. Molti accusano i protestanti di aver tolto questi libri dalla Bibbia, ma questi non sanno che è stata la Chiesa Romana ad aggiungerli, loro non hanno tolto nulla.

La versione dei LXX conteneva oltre agli apocrifi: Tobia, Giuditta, Sapienza, Ecclesiastico, Baruc, 1 e 2 Maccabei, aggiunte a Daniele e a Ester, anche il III e il IV libro di Esdra e la preghiera di Manasse. Essa non li considerava per niente ispirati, ma erano stati consapevolmente introdotti (e vi sono svariate prove di ciò) solamente per la loro utilità storica, poetica e sapienzale, con l’avviso che, comunque, mai si sarebbero dovuti minimamente mettere allo stesso livello di quelli ispirati.

La Chiesa Romana ha agito con interesse non ritenendo di aggiungere nel proprio canone il III e il IV libro di Esdra e la preghiera di Manasse, definendoli definitivamente apocrifi, prendendo in considerazione invece gli altri apocrifi in questione definendoli nel tempo scritti ispirati.

Ma andiamo a studiare le contraddizioni e gli errori di alcuni dei libri apocrifi che la Chiesa Cattolica definisce ispirati. Nel libro di Tobia, che è pieno di favole, riscontriamo una menzogna che lo scrittore fa dire a un angelo di Dio di nome Rafael. Prima troviamo scritto che Tobia uscì in cerca di un uomo pratico della strada che lo accompagnasse nella Media, e appena uscito si vide davanti Rafael, l’angelo, ma Tobia non conosceva la natura celeste di questi. Poi quando Tobit (o Tobi), il padre di Tobia, gli chiese: “..Fratello, di che famiglia e di che tribù sei?….Voglio sapere con verità di chi tu sei figlio e il tuo vero nome”, l’angelo rispose: “Sono Azaria, figlio di Anania il grande, uno dei tuoi fratelli” Tobia 5:4-13 (versione C.E.I.).

Gli angeli di Dio, secondo le Sacre Scritture, sono creature sante e non si mettono a mentire quando parlano, perché essi fanno e dicono tutto ciò che Dio vuole. Se l’angelo si chiamava Rafael avrebbe dovuto rispondere che si chiamava Rafael oppure non rispondere. Come mai disse di essere Azaria e per giunta suo parente? Sempre in questo libro riscontriamo anche la superstizione che sarebbe dovuta essere stata insegnata niente di meno che da un angelo di Dio. È scritto infatti, in Tobia 6:1-8, che una notte Tobia scese verso il fiume Tigri per lavarsi i piedi e ad un tratto un grosso pesce balzò fuori dall’acqua per divorare il piede del ragazzo, il quale si mise a gridare; l’angelo allora gli disse di afferrare il pesce e di tirargli fuori il fiele, il cuore e il fegato, i quali potevano essere utili come medicamenti, e di buttare via gli intestini.

Dopo che Tobia ebbe arrostito una parte del pesce e l’ebbe mangiata si misero in cammino e durante il percorso il giovane domandò all’angelo quale medicamento ci poteva essere nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce. L’angelo allora gli rispose: “Quanto al cuore e al fegato (del pesce), ne puoi fare suffimigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio, o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna” v. 8. Come si può accettare per ispirato un libro dove un angelo mente e si mette pure ad insegnare la superstizione?

Nel libro di Giuditta si fa risalire la storia di questa donna a poco dopo il rientro dalla cattività in Babilonia e in un passo viene detto: Giuditta 4:1-3 (versione C.E.I.) “Quando gli israeliti che abitavano in tutta la Giudea sentirono per fama quanto Oloferne, il comandante supremo di Nabucodonosor, aveva fatto agli altri popoli e come aveva messo a sacco tutti i loro templi e li aveva votati allo sterminio, furono presi da indescrivibile terrore all’avanzarsi di lui e furono costernati a causa di Gerusalemme e del tempio del Signore, loro Dio. Oltre tutto, essi erano tornati da poco dalla prigionia e di recente tutto il popolo si era radunato in Giudea; erano stati consacrati gli arredi sacri e l’altare e il tempio dopo la profanazione”. (Leggere, se interessati a eseguire ulteriori verifiche, tutto il libro di Giuditta che presenta molte contraddizioni e innumerevoli errori storici).

In queste poche parole ci sono diverse menzogne, perché quando i giudei tornarono in Giudea, dalla cattività in Babilonia, non esisteva più il re Nabucodonosor, re di Babilonia, in quanto morto da molti anni. In quel tempo esisteva, invece, il regno dei medi e dei persiani sul quale regnava Ciro re di Persia ed era stato proprio questi a rimandare liberi gli esuli ebrei, affinché tornassero in Giudea a ricostruire il tempio di Dio.

Nel libro 2 Maccabei 2:1-8 troviamo una menzogna che consiste in questo: lo scrittore dice che il profeta Geremia andò al monte, dove Mosè era salito per vedere la terra promessa, e presso questo, in una caverna, nascose il tabernacolo (la ‘tenda’), l’arca ,e l’altare dei profumi, e poi disse ad alcuni che il luogo sarebbe rimasto ignoto fino a quando Dio avrebbe riunito nuovamente il suo popolo; in quel tempo Dio avrebbe rivelato dov’erano quegli oggetti sacri, ma queste cose non possono essere vere, perché proprio nel libro del profeta Geremia (colui che avrebbe dovuto dire tali cose) è scritto che all’arca del patto dell’Eterno, quando Dio avrebbe ricondotto il suo popolo in Sion, non si avrebbe più pensato, infatti è scritto: Geremia 3:14-16 “….vi prenderò, uno da una città, due da una famiglia, e vi ricondurrò a Sion; vi darò dei pastori secondo il mio cuore, che vi pasceranno con conoscenza ed intelligenza. Quando sarete moltiplicati e avrete fruttato nel paese, allora, dice il SIGNORE, non si dirà più: <L’arca del patto del SIGNORE!>. Non vi si penserà più, non la si menzionerà più, non la si rimpiangerà più, non se ne farà un altra ”.

Questa contraddizione ci fa capire come questo libro non può essere ispirato da Dio, ma c’è di più, molto di più, riguardo a questi libri apocrifi dei Maccabei. Altra contraddizione, che fa dei libri dei Maccabei dei testi inaffidabili e non ispirati, è la descrizione della morte del re Antioco Epifane che è riportata, contemporaneamente, nei due libri in tre maniere completamente diverse l’una dall’altra. In 1 Maccabei 6:1-16 è scritto che il re, al sentire notizie non buone, restò abbattuto, e preso da profonda agitazione si gettò sul letto e si ammalò per la gran tristezza, in quanto le cose non erano andate secondo i suoi desideri. Egli rimase così per molti giorni e, siccome la sua tristezza andava crescendo, si sentì vicino alla morte, e così difatti poi avvenne.

In 2 Maccabei 1:13-16 è detto che lo stesso re morì lapidato in Persia, nel tempio della dea Nanea, infatti troviamo scritto che i sacerdoti presero il condottiero (il re) e i suoi compagni a sassate, tagliarono le loro membra e la testa. In 2 Maccabei 9:1-28 (questa terza descrizione della morte del re è fatta dallo stesso autore di 2 Maccabei e nello stesso libro; è facile capire che invece di uno scrittore ispirato si tratti semplicemente di un narratore, come del resto egli stesso si dichiara, che afferma anche che ha solo narrato e riassunto le varie idee storiche passate del suo tempo), è detto che Antioco morì roso dai vermi perché Dio lo colpì con una piaga.

Si sono voluti dimostrare, con alcuni dei tanti esempi che potremmo citare, i molti errori e le contraddizioni dei libri apocrifi ritenuti invece validi, e per giunta ispirati, dalla Chiesa Romana, ma soffermiamoci di più sul libro 2 Maccabei, perché da un passo di questo testo la Chiesa Romana attinge la certezza della dottrina del purgatorio. Questo libro scritto, da un ignoto Giasone di Cirene, non è la continuazione di 1 Maccabei, il quale ha difatti un altro autore.

A dimostrazione che questo libro non è un’opera ispirata da Dio, né tanto meno lo è stato lo scrittore originario, sta il fatto che nel c. 2:23-32 si fa riferimento al Giasone (l’autore), definendolo come un narratore storico che compose la sua opera in cinque libri, ma poi è chiaramente detto che tale opera venne riassunta e sintetizzata in un solo libro (l’odierno libro di 2 Maccabei) da altri scrittori: “questi fatti, narrati da Giasone di Cirene nel corso di cinque libri, ci studieremo di riassumerli in una sola composizione. Vedendo infatti la massa di numeri e l’effettiva difficoltà per chi desidera di inoltrarsi nelle narrazioni storiche, a causa della vastità della materia, ci siamo preoccupati di offrire diletto a coloro che amano leggere, facilità a quanti intendono ritenere nella memoria, utilità a tutti gli eventuali lettori. Per noi certo, che ci siamo sobbarcati la fatica del sunteggiare, l’impresa non si presenta facile: ci vorranno sudori e veglie, così come non è facile preparare un banchetto e accontentare le esigenze altrui; tuttavia per far cosa gradita a molti ci sarà dolce sopportare la fatica, lasciando all’autore la completa esposizione dei particolari, curandoci invece di procedere secondo gli schemi di un riassunto. Come infatti in una casa nuova all’architetto tocca pensare a tutta la costruzione, mentre chi è incaricato di dipingere a fuoco e a fresco deve badare solo alla decorazione, così, penso, è per noi. L’entrare in argomento e il passare in rassegna i fatti e l’insinuarsi nei particolari, spetta all’ideatore dell’opera storica; curare il sunto della esposizione e tralasciare i complementi della narrazione storica, è riservato a chi fa l’opera di compendio. Di qui dunque cominceremo la narrazione, senza nulla aggiungere a ciò che abbiamo detto nella prefazione: sarebbe certo ingenuo abbondare nei preamboli e abbreviare poi la narrazione storica”.

Innanzitutto uno Scritto Sacro non potrebbe mai essere sintetizzato e riassunto, com’è avvenuto invece in questo caso, da cinque libri originari in uno solo; in realtà, nemmeno una parola in un Testo Sacro si potrebbe togliere, manipolare o aggiungere; la Parola di Dio non si può, per chi crede, tagliuzzarla. Diventa ancora più chiaro che non siamo di fronte a un libro ispirato.

Anche se lo scrittore originario di 2 Maccabei fosse stato ispirato (certamente non lo fu come lui stesso dichiara), si può, per due motivi importanti, oltre alle prove già considerate, avere la certezza della non ispirazione di questo libro: il primo motivo consiste nel fatto che l’opera iniziale fosse di cinque libri; il secondo consiste nel fatto che chi ha sintetizzato tale opera ha tagliuzzato il contenuto dei cinque libri rendendo definitivamente il lavoro del Giasone (quand’anche fosse stato nell’originale un’opera ispirata, cosa certamente impossibile) né più né meno un libro ‘religioso’ come tanti.

Il compito dei sintetizzatori fu esclusivamente quello di trascrizione e sintesi. Ritenere l’autore di 2 Maccabei ispirato a questo punto non basterebbe perché, per mantenere valida l’opera, sarebbero dovuti essere ispirati anche (oppure solamente) coloro che l’hanno trascritta e sintetizzata in un unico libro. Avendo quest’ultimi non lasciato alcuna loro ‘impronta’ personale nel libro, diventa assai improbabile l’ispirazione dei sintetizzatori. Nessuno può neanche assicurarci che chi ha operato la sintesi dei cinque libri di Giasone lo abbia fatto in modo chiaro, giusto e senza arbitrarietà, riportando letteralmente i fatti da questi (il Giasone) riportati, considerando il fatto che l’operazione della sintesi non è per niente facile quando trattasi di argomentazioni storiche e popolari, soprattutto se legati, come in questo caso, a circostanze e motivazioni filo-religiose.

È, inoltre, chiaro (leggere: c. 2:23-32, nei versi 23,24,30,32) che si tratta semplicemente di una narrazione storica e che, solo come tale, ha potuto subire il processo di sintesi da cinque libri a uno solo. Questo libro, del resto, non manca di fatti narrati con sfumature un po’ troppo leggendarie; ci si accorge, con estrema evidenza, della voluta mistificazione di alcuni fatti, chiaro segno questo che l’opera è ispirata dalla mente dell’uomo e non da Dio.

Questi fatti, per caratteristiche evidenziabili, sono simili alle tante storie leggendarie raccontate in tanti altri libri apocrifi, solo che, negli ultimi, esse sono molto più evidenti e quindi tali libri sono scartati, senza indugio, dal canone cattolico, tuttavia uno scritto non ispirato non si dovrebbe riconoscere solo da questi aspetti, ma soprattutto dalla comunione dei dati, e dei fatti riportati, con la verità, cosa che in questo libro, come detto prima, non avviene (Ripeto ancora che il canone ebraico era privo di tali libri apocrifi e lo è tuttora e la versione dei Settanta li definiva non ispirati, pur avendoli inseriti nella propria traduzione greca).

Uno scrittore ispirato (parlo di Giasone di Cirene l’autore dei cinque libri sintetizzati da altri scrittori in un unico libro), inoltre, non avrebbe mai potuto scrivere parole come: 2 Maccabei 15:37-39 (vers. C.E.I.) “…anch’io chiudo qui la mia narrazione. Se la disposizione dei fatti è riuscita scritta bene e ben composta, era quello che volevo; se invece è riuscita di poco valore e mediocre, questo solo ho potuto fare….così l’arte di ben disporre l’argomento delizia gli orecchi di coloro a cui capita di leggere la composizione. E qui sia la fine (inoltre, neanche i sintetizzatori, se fossero stati ispirati, avrebbero dovuto riportare simili parole nel testo).

Il libro di 2 Maccabei, che tanto interessa ai teologi cattolici, non è né uno Scritto Sacro né, tanto meno, ispirato. Inoltre, le contraddizioni elencate prima (e non sono solo quelle) fanno risultare il libro un testo di poco valore, anche come semplice libro storico. Bisognerebbe capire di quali fonti storiche si servì l’autore Giasone di Cirene, con quale discernimento le trascrisse nei suoi cinque libri, con quanta istruzione, riguardo alla religione giudaica, espose i fatti e le tradizioni narrate, gli eventi religiosi e soprannaturali, per discernere e individuare, e, quindi, scartarne il mito, la leggenda e l’errore, e se nel riassumere i cinque libri di Giasone in uno solo, gli scrittori sintetizzatori si siano limitati a togliere le parole, frasi o fatti (a loro parere meno importanti) o se, per giunta, abbiano aggiunto, qualche volta, arbitrariamente, una qualche specie di commento personale, abbinato a qualche argomentazione originale dell’opera, allo scopo di aggiornamento e arricchimento. Rimane tuttavia certo che non si tratta di uno Scritto Sacro.

Il passo del libro di 2 Maccabei, in cui i teologi cattolici intravedono la dottrina del purgatorio, è il seguente: 2 Maccabei 12:40-45 “Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per i peccati dei caduti. Poi fatta una colletta, con un tanto a testa, per circa duemila dracme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, compiendo così un’azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato”.

L’avvenimento del sacrificio che sarebbe stato offerto per i morti, in 2 Maccabei 12:40-45, è, in modo assoluto, in contraddizione con la dottrina biblica; niente e nessuno negli Scritti Sacri, argomenta, neanche lontanamente, di un sacrificio da offrire per i morti, anzi viene detto sempre il contrario. Se dovessimo prendere in considerazione tutti i fatti, avvenimenti e le fantasmagoriche dottrine, espresse dai più svariati libri apocrifi (i quali sono numerosissimi) ci ritroveremmo a dover considerare una fede del tutto puerile e piena di fatti interamente leggendari, per cui, anche se figurano nel canone cattolico, i libri di Maccabei (e non solo) non sono Scritture ispirate da Dio, perciò è errato prendere quel passo prima citato a sostegno del suffragio per i morti. Va precisato, inoltre, per quel che concerne il sacrificio per i morti fatto offrire da Giuda Maccabeo, che questo si opponeva e si oppone in maniera assoluta alla legge di Mosè, nella quale non erano prescritti dei sacrifici da offrire per i peccati dei morti (ma solo per quelli dei vivi), quindi, quand’anche Giuda abbia fatto quel gesto, egli, semplicemente, non si è attenuto alla legge dei suoi padri.

Nemmeno una sola volta, nelle Sacre Scritture, è raccontato o decritto un sacrificio o una preghiera per i morti, anzi sia la legge di Mosè sia il canone generale biblico vi si oppongono; la legge di Mosè, in modo implicito, il canone generale, invece, in modo esplicito.

Per cui i teologi cattolici prendono a sostegno dei suffragi e delle preghiere, per i morti, niente di meno che un gesto senza valore di un giudeo. In sintesi, dov’è la dottrina del purgatorio in questo passo? Innanzitutto è bene precisare che tale fatto potrebbe non essere realmente accaduto o comunque non in quei termini; ciò viene reso possibile anche dalla circostanza che nello stesso libro vi sono contraddizioni evidenti, tra le quali quelle riguardanti ciò che Geremia avrebbe detto a proposito dell’arca, e quelle riguardanti la morte di Antioco Epifane.

Tutto ciò non ci proibisce di pensare (anzi induce a pensare e a credere…) che anche per tale avvenimento possa esserci stato una narrazione non coerente con la realtà, probabilmente proprio perché risulta che il Giasone di Cirene si attenne, oltre a delle fonti storiche, anche a delle tradizioni e fonti orali provenienti da svariati ambiti leggendari e mistici. Volendo, tuttavia, credere pure che tale avvenimento sia realmente accaduto si deve notare come errori del genere furono commessi perfino da uomini di fede come, ad esempio, Aaronne, il quale spinto dal popolo contrastò la legge di Dio quando eresse un vitello d’oro: Esodo 32:1-10; Iefte, uomo di fede, che non volendo revocare un’avventata promessa fatta al Signore (promessa che era contro la Parola di Dio) sacrificò sua figlia: Giudici 11:29-40 (cosa abominevole per le Scritture).

La legge mosaica non prescriveva sacrifici umani, anzi era in forte opposizione a queste cose. Per cui non perché fatti da uomini di fede tali gesta debbono, necessariamente, essere seguite o ritenute giuste (Giudici 11:29; Iefte, ad esempio, era un uomo di fede “sul quale era sceso lo Spirito del Signore”). Così se Giuda fece offrire davvero tale sacrificio per i morti sbagliò come sbagliarono pure, in modo differente, uomini di fede come Aaronne, Iefte ed altri ancora. Il vero credente dovrebbe seguire quanto le Sacre Scritture dichiarano giusto e non gli errori di uomini del passato, come anche del presente. È utile sapere, inoltre, che sotto Alessandro Magno la Grecia entrò, per la prima volta, in contatto diretto con la Giudea che soccombette senza combattere. Dal tempo di Alessandro l’influenza greca entrò nella religione ebraica.

Anche dopo la conquista romana, al tempo di Gesù, l’influenza della lingua, della cultura, e della filosofia greca era sempre ben infiltrata nella religione ebraica. Al tempo dei Maccabei, gli ebrei erano stati colonizzati già da un pezzo e la filosofia greca, la quale affermava tre stadi dopo la morte, anziché due, può verosimilmente, anzi quasi certamente, aver influenzato con una sorta di semi-gnosticismo e di sincretismo alcuni comuni giudei, ma perfino alcuni tra rabbini e sacerdoti (Infatti, al tempo di Gesù, vi erano ebrei che parlavano l’aramaico, ma anche ebrei che parlavano correntemente il greco (i cosiddetti ebrei ellenici) e chi addirittura tutte e due le lingue).

Nessun vero credente si sognerebbe di copiare quanto fece Aaronne col vitello d’oro o Iefte col sacrificio della figlia, così non vedo perché dal gesto di Giuda la Chiesa Romana debba estrapolare l’iniqua dottrina del purgatorio e del suffragio per i morti. Se Giuda fece realmente ciò, non fu ispirato da Dio, come non lo furono né Aaronne né Iefte nelle loro gesta citate.

Nella legge precisissima, e piena di dettagli, di Mosè nulla è scritto riguardo a dei sacrifici da offrire per i morti; essa descrive rituali, cerimonie, feste e sacrifici per i vivi, in modo assai dettagliato; parla in modo specifico dei comandamenti morali, delle norme di giustizia e di come e quando amministrarle, e con tutto ciò non avrebbe dovuto dedicare (leggere il Pentateuco per averne un’idea) una sola parola per spiegare e ordinare un ipotetico sacrificio dovuto ai defunti? Tra l’altro così vitale per le anime purganti, per avere ristoro dal fuoco e un’abbreviazione della pena?

Due sono le ipotesi, o il fatto è vero e quindi Giuda non fu, in quella, circostanza, certamente, ispirato da Dio, ma, probabilmente, influenzato dalla filosofia greca, la quale aveva dato vita a un specie di sincretismo e che può averlo affascinato al punto da agire ‘mosso da pietà’ per quei defunti e per la certezza e piena fiducia nella ‘risurrezione dalla tomba’, o l’autore del libro riportò semplicemente un fatto non realmente accaduto (o, comunque, non in tali modi descritti nel libro) risalente a fonti orali, o anche scritte, leggendarie e mistificate.

È pur certo che Giuda (se vogliamo credere che tale avvenimento sia realmente accaduto), nel voler offrire un sacrificio per quei morti (che erano incorsi in tale disgrazia per aver portato con sé oggetti sacri agli idoli di Iamnia), credeva che Dio, nel giorno della resurrezione, potesse resuscitarli, perdonandoli da tali peccati; non è in alcun modo implicita la credenza del purgatorio in tale atto, è ben noto pure come, tuttavia, il proposito dello scrittore, o narratore, non è affermare una tale dottrina, ma solo quello di voler raccontare un tale (ipotetico) avvenimento per descrivere la realtà e veracità della dottrina della resurrezione: 2 Maccabei 12:44-45 (altro che la dottrina del purgatorio). In tutta la Scrittura ispirata non vi è alcun accenno a un sacrificio per i morti né tanto meno a un purgatorio dopo la morte.

Qualcuno potrebbe obbiettare a ciò, dichiarando che anche se i cinque libri di Giasone potevano non essere ispirati, Dio potrebbe, invece, aver ispirato gli scrittori che sintetizzarono tale opera in un unico libro, ovvero potrebbero affermare che l’odierno libro di 2 Maccabei è ispirato, in quanto il Signore potrebbe aver suscitato l’ispirazione divina negli scrittori, i quali avrebbero usato, come base del loro testo, dei libri storici non ispirati (i cinque libri di Giasone), come d’altronde avviene per i libri 1-2 Re e 1-2 Cronache, nei quali gli scrittori ispirati senza dubbio affermano, a volte implicitamente, a volte esplicitamente, di aver preso le fonti storiche del loro racconto ispirato da altri libri storici non ispirati.

A tali, eventuali, obbiezioni, si potrebbe rispondere: innanzitutto in 1-2 Re e 1-2 Cronache gli scrittori ispirati fanno assumere alla loro opera una propria personalità individuale dovuta all’ispirazione divina e non compare in alcun modo la vecchia personalità individuale dei libri storici, usati come fonti per il libro ispirato. Nello scritto ispirato tutto è buono e verace e ha pieno valore perché chi guida è Dio, e quello che è scritto è Parola di Dio. Nel libro 2 Maccabei, invece, è, assolutamente, chiaro che gli scrittori hanno lasciato pensiero, opera e ideologia dell’autore Giasone, senza preoccuparsi di lasciare la propria sotto l’influsso dello Spirito Santo (che infatti non c’è stato e neanche era in programma) e di dare, attraverso l’influenza di Egli, al nuovo libro, un’identità nuova che in effetti non c’è stata.

Chi legge il libro 2 Maccabei si renderà subito conto che gli scrittori hanno semplicemente sintetizzato l’opera di Giasone, lasciando l’identità, la personalità e l’individualità propria dell’opera originaria del tutto intatta (del resto, se gli scrittori, che sintetizzarono l’opera, fossero stati ispirati, non avrebbero dovuto lasciare il pensiero personale del Giasone riguardo al suo scritto, specialmente quella parte intrisa com’è di pensiero e insicurezza umana: c. 15:37-39).

Nel libro 2 Maccabei, invece, si dà fin troppa importanza all’autore originario dell’opera, e questo è fin troppo contraddittorio, inoltre, appare chiaro che nel libro 2 Maccabei si vuole, da parte degli scrittori, lasciare completamente intatti, pensiero, ideologia e identità dell’autore Giasone e si sprecano fin troppe parole per la sua presentazione (2 Maccabei 2:23-32).

In conclusione, né i cinque libri di Giasone sono ispirati, né lo è l’opera forgiata da codesti libri dagli scrittori anonimi di 2 Maccabei. Del resto, gli scrittori di 2 Maccabei non avrebbero, se la loro opera fosse ispirata, riportato simili parole in 2 Maccabei 15:37-39.

Nei libri apocrifi ci sono anche delle altre storie che servono come base a qualche altra dottrina perversa della Chiesa Romana. Per esempio, nel caso di 2 Maccabei, oltre al sacrificio per i defunti, al c. 15:11-16 è raccontata la storia di alcune preghiere fatte da un sacerdote morto (Onia) e dal profeta Geremia (morto anch’egli),per i vivi sulla terra. Ad ogni modo, l’avvenimento presenta questi personaggi che pregano, in modo implicito, per il loro popolo senza aver minimamente chiesto al popolo di essere invocati per poter intercedere in suo favore, ovvero non vi è alcun accenno riguardo a un’invocazione da fare ai santi morti né tanto meno a una loro intercessione proposta su richiesta da parte del bisognoso.

Inoltre, la ‘spada d’oro’, la ‘ sacra’, data da Geremia, defunto ormai da secoli, a Giuda, come dono di Dio per abbattere i nemici, fa pensare molto alle storie raccontate nei film di fantascienza e molto di più a mitologie e leggende del mondo ellenistico dalle quali i giudei, in quel tempo, erano, inesorabilmente, influenzati. Tutto quanto è stato detto finora chiarisce come ci si trovi di fronte ad un libro apocrifo. Riguardo ai libri apocrifi della Sapienza e dell’Ecclesiastico, per esempio, ci sono alcune cose vere che non possono essere annullate, in quanto legate al vero fondamento biblico, ma non per questo possono essere considerati canonici, infatti questi, come gli altri elencati prima, non sono stati mai presenti, come non lo sono tuttora, nel canone ebraico.

Ricordiamo che né Gesù né gli apostoli fecero mai riferimenti diretti a questi libri apocrifi. Questo loro silenzio (oltre a quanto già detto) dimostra come questi non erano considerati, da loro, Parola di Dio. Gli ebrei, ai quali, non lo dimentichiamo “..furono affidate le rivelazioni di Dio” (Romani 3:2), non riconobbero mai come canonici quei libri e quelle aggiunte ad Ester e a Daniele ed è per questo, infatti, che nella Bibbia ebraica (la quale contiene solo i libri dell’Antico Testamento) essi sono sempre stati assenti.

La Chiesa primitiva negò sempre la canonicità di questi libri, infatti, non li mise mai (neanche minimamente) allo stesso livello di quelli Sacri.

Concludiamo citando le seguenti Scritture che attestano con fermezza che è vietato sia aggiungere, che togliere alcunché alla Parola di Dio: Proverbi 30:5-6 “ Ogni parola di Dio è affinata con il fuoco…Non aggiungere nulla alle sue parole, perché egli non ti rimproveri e tu sia trovato bugiardo”; Deut. 4:2: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del SIGNORE vostro Dio, che io vi prescrivo”; Ap. 22:18-19: “Io lo dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio, aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della santa città che sono descritti in questo libro”.

Girolamo stesso, il traduttore della traduzione latina detta Volgata (tenuto in grandissima stima dalla Chiesa Romana), affermò: “La Chiesa legge il libro di Tobia, di Giuditta, dei Maccabei, di Baruc, di Susanna, della Sapienza, dell’Ecclesiastico, l’Inno dei tre giovani e le favole di Belo e del Dragone; ma essa non li riceve affatto nel novero delle scritture autentiche”, (Girolamo, prologo a Graziano). Quella di Girolamo è una delle tante testimonianze dei cosiddetti ‘Padri della Chiesa’, i quali affermarono che, nel loro tempo (alcuni secoli dopo Cristo), quei libri apocrifi non venivano considerati canonici.

Il Concilio di Trento (1546), dunque, riconoscendo per canonici questi, prima citati, apocrifi ha contrastato anche Girolamo, il quale è l’autore della traduzione latina detta Volgata che il Concilio di Trento ha dichiarato dover essere accettata come la sola autentica tra tutte le versioni. Conclusosi lo studio riguardo agli apocrifi, è utile far emergere, inoltre, che i teologi cattolici sostengono l’esistenza anche di un quarto luogo: il Limbo. Tale teoria anche se risulta non essere mai stata fatta dogma di fede, nel Medioevo, però, era sostenuta con fermezza.

Questo luogo designa, per i teologi cattolici, la dimora delle anime dei neonati e dei bambini non battezzati che sono morti prima di essere messi in condizione di aver adempiuto a tale sacramento. Questo luogo non sarebbe né di pena né di purificazione, ma di semplice privazione della presenza e della gloria di Dio. Le preghiere per i morti furono inventate verso l’anno 310 d.C. Il purgatorio, secondo i teologi cattolici è un luogo di purificazione attraverso anni, decenni, o secoli, di atroci dolori e sofferenze nel fuoco.

Secondo la Scrittura, invece, Dio cancella i peccati dell’uomo, il quale viene in sua Presenza a confessarli, sia i peccati sia la pena eterna che egli merita. Ammettiamo pure per un momento’ che il purgatorio esista, non hanno mai letto i teologi cattolici che: (Galati 6:5) “Ciascuno infatti porterà il proprio fardello” e che nessuno può in alcun modo: (Salmo 49:7)“…riscattare il fratello, né pagare a Dio il prezzo del suo riscatto”? Come fanno, dunque, a insegnare che i vivi possono in qualche modo offrire a Dio un sacrificio espiatorio per i morti che sarebbero in purgatorio? E quale sarebbe poi questo sacrificio? La messa, ma se già per i vivi la messa non costituisce per nulla un sacrificio propiziatorio, come potrebbe, invece, esserlo per i morti?

Come potete ben vedere le imposture (in questo caso il purgatorio, con la messa e le preghiere per i morti) sono ben collegate tra di loro nella teologia romana. Ap. 14:13: “E udii una voce dal cielo che diceva: Scrivi: <beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore. Si, dice lo Spirito, essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono> ”.

Le Sacre Scritture attestano che coloro i quali muoiono nella grazia sono beati, perché si riposano dalle loro fatiche in cielo. Questo esclude che essi si trovino in un purgatorio a espiare dei loro debiti mediante delle sofferenze atroci simili a quelle dell’inferno, in quanto, in questo caso, non sarebbero più felici, bensì infelici, perché, invece, che riposarsi dalle loro fatiche, starebbero soffrendo pene atroci come punizione dei loro debiti.

Gesù ha detto: Giov. 5:24 “…chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”, e Paolo dice nella lettera ai Romani al cap. 8, v. 1: “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”. Quindi se per coloro che sono in Cristo non v’è nessuna condanna e se, secondo le Scritture, Gesù ha detto che essi non vengono in giudizio, ma che passano dalla morte alla vita, è contraddittorio pensare che dopo morti, prima di entrare in cielo, essi avranno bisogno di andarsene (per anni, decenni o secoli) in un purgatorio a soddisfare i debiti che rimangono nei confronti della giustizia di Dio.

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